Corriere della Sera - La Lettura

Il bidello che urla il dolore e il riscatto

Carmine Donnola, bidello di 64 anni, sul volto un paesaggio lucano, si ubriacava nella grotta di Zorro. Poi ha iniziato a scrivere poesie Sognava di diventare attore, ha ripetuto due volte la terza media e compone versi che affigge sui muri, legge nelle c

- Di C. BRESSANELL­I e R. GALAVERNI

Urli e risvegli. «Molti mi hanno detto che non si dice urli, ma urla. Io ho voluto dire urli perché gli urli sono tanti. Gli urli sono le urla della povera gente, dei disoccupat­i, degli emarginati. Di chi non ha più niente. Ci sono anche le mie urla. Le urla del passato. E nei risvegli c’è il mio riscatto». Urli e risvegli è il titolo di una poesia («vorrei abbracciar­e la notte/ dimenticar­e il tempo che fugge»). L’ha scritta Carmine Donnola. Compirà 64 anni il 12 agosto, è nato e vive a Grassano, cinquemila abitanti in provincia di Matera. La barba lunga di un Noè disfatto, gli occhi inondati di luce ma stanchi. È sposato, ha due figli, Carmine Donnola. Di mestiere fa l’operatore scolastico. Il bidello. Da ragazzo sognava di diventare attore. Alle spalle, 25 anni di dipendenza dall’alcol. Dalla «bottiglia», dice lui. Venticinqu­e anni di «prigionia» che pesano ancora sulla sua vita e incidono il suo volto. Poi la disintossi­cazione.

La poesia c’era già durante il saccheggio dell’alcol. La poesia è rimasta.

Urli e risvegli è anche il titolo della raccolta dei suoi versi (Edizioni Progetto Cultura, 2015). E ora di un docu-film diretto da Nicola Ragone, lucano anche lui, classe 1986, a cui partecipa Eugenio Bennato, e che il 28 aprile sarà presentato al Bif&st, il Bari Internatio­nal Film Festival, come evento speciale. Il film ricostruis­ce la storia di un poeta, «salvato, di strada» .

«Dopo la disintossi­cazione la poesia è stato il mio modo per dire ci sono anch’io», racconta Carmine Donnola a «la Lettura». Al telefono da Grassano le parole sono quasi sussurrate, pesate una a una. Ricorda aneddoti, in modo sparso, alcuni evocati anche nel film. «I miei versi nascono dalla sofferenza», quella che ha vissuto e quella che ha fatto vivere. «Ma anche dall’emozione che una certa situazione mi può trasmetter­e».

Una poesia emersa come un urlo nella cantina dell’amico Pasquale Dinisi, detto Zorro. «La grotta di Zorro era il tempio dove andavo a raccoglier­mi e ritrovarmi. Il luogo dove la mia anima era tranquilla. Qui bevevo ancora ma non come bevevo al bar. Qui bevevo in un altro modo. Qui trovavo la mia dimensione. La mia solitudine. E le parole venivano a cercarmi». Qui sono nate alcune poesie. «Stavamo lì, e a un certo punto, mi metto a urlare e dopo questo grande urlo ecco: “L’urlo/ il grande urlo/ frantumò l’eco/ le parole scesero giù/ come macigni/ tutto si fermò/ il pazzo andò oltre/ il vigliacco si chiuse/ il suicida sorrise/ solo lo scemo s’illuminò”».

I versi all’inizio li scriveva sui tovaglioli­ni dei bar. «Mi mettevo in un angolo. Prendevo la bottiglia, un tovagliolo e scrivevo. E finito di scrivere lo cestinavo». Fino al giorno in cui Pasquale recupera uno di questi tovaglioli: «È un peccato che butti via queste parole. È meglio che me le mangio. Così rimangono nell’anima». Nel film l'episodio lo raccontano Carmine e Pasquale. Carmine riflette: «Ho buttato tante cose belle nella mia vita». Sono in macchina. Pasquale sta accompagna­ndo Carmine a Oliveto Lucano. Carmine non guida più fuori da Grassano, si muove in treno, a piedi, in autostop, accompagna­to dagli amici («L’alcol mi ha danneggiat­o. Mi ha riempito la vita di panico»). A Oliveto Lucano ha dedicato una delle sue poesie nella quale scrive che «Cristo non si è fermato a Eboli», no, ma tutto appare ancora deserto.

Ne scrive tante, per gli amici, per i conoscenti. Molte ispirate a personaggi noti (Marco Pantani, «gladiatore vincente/ con lo scatto del tempo/ hai sfidato te stesso»; Moira Orfei, «una stella polare/ esemplare e saggia»; Bebe Vio, «dalla roccia attinge/ energia e forza/ dalla gioia la gloria» e poi Valentino Rossi, Pino Daniele, Pierangelo Bertoli...), all’attualità, alle morti bianche, agli emarginati ( I calpestati, «uomini invisibili/ che non immaginano il Paradiso/ macigni di ricordi pressati nella mente»), alla sua terra. Poesie che ora conserva, e che sente il dovere di fare avere al luogo, all’amico, al personaggi­o che le ha ispirate: «Ho fatto conoscere le mie poesie affiggendo­le sulle mura, leggendole nelle cantine, declamando­le sui palchi, arrotoland­ole e regalandol­e per le strade, incidendol­e su cd, trasforman­dole in etichette per le bottiglie di vino. Le ho fatte conoscere mettendole sotto le tegole come rondini».

Carmine Donnola regala poesie per dovere, «per condivider­e un dono». Cerca le persone che lo hanno ispirato e regala una poesia. Allo stesso modo ha cercato Eugenio Bennato. Il cantautore na-

Eugenio Bennato: «Tra la folla degli studenti ho visto questo volto. Non riuscivo ad andare oltre quello sguardo». Nicola Ragone: «Carmine si è presentato davanti a me con un malloppo di versi sparsi. Me li ha messi in mano»

poletano (1947) una decina d’anni fa si trovava a Potenza, per una conferenza­concerto all’università. Racconta: «Carmine si è fatto conoscere in una situazione in cui non era facile dimostrare di avere qualcosa da dire». Tra la folla di studenti «ho visto questo volto, che poteva apparire quello di un “barbone”. Non riuscivo ad andare oltre quello sguardo. Quell’uomo mi ha lasciato un cd avvolto in carta da giornale. L’ho ascoltato, scettico». Inciso sulla musica di Brigante se

more, scritta da Bennato e Carlo D’Angiò, Carmine Donnola recitava i suoi versi: «Senza ledere o ferire/ ho scritto per te per lui per l’altro/ questa sera voglio scrivere per me... Se penna e inchiostro/ potessero ferirti il petto/ non l’aurora avresti nel cuore/ ma una lama appuntita/ che ti farebbe addolcire» ( Discendent­i

della Magna Grecia). Continua Bennato: «La prima cosa che mi colpì fu l’originalit­à. Non era uno dei soliti canti nostalgici. Qui c’era un urlo, un urlo diverso. C’era una storia da raccontare, qualcosa di importante da dire. E c’era questa voce lucana molto intensa mischiata con la mia musica». Una miscela che Bennato ha voluto poi riportare nei suoi concerti in Basilicata e dintorni (e anche nel film). «Telefonai a Carmine. Era sbalordito — dice — di avere una risposta da me. Ha iniziato a mandarmi poesie su poesie. Erano tutte della stessa forza. Invenzioni bizzarre. A quel punto pensai che la valenza “rock” di questo personaggi­o di rottura mi consentiva di portarlo sul palco». Dove urla i suoi testi.

L’incontro con Nicola Ragone arriva quasi alla fine di questa storia. Il regista è nato a Tricarico. Ma la madre viene da Grassano (i due comuni distano una ventina di chilometri): «Non ho scelto io di fare questo film. Carmine — racconta — si è presentato con un malloppo di versi sparsi. Me li ha messi in mano. È stato il suo volto a colpirmi, il volto di un paesaggio profondo. Era già un fotogramma. Poi ho letto le sue poesie. Dentro c’è il mondo che conosco. Il mondo quotidiano di queste terre desolate e dei personaggi che lo popolano». Sapeva che Carmine Donnola da giovane avrebbe voluto fare l’attore. Era anche partito, quindicenn­e, prima per Roma e poi per Torino per inseguire un sogno mai raggiunto. Ragone stava realizzand­o il cortometra­ggio Son

derkommand­o con la fotografia di Daniele Ciprì (Nastro d’argento nel 2015). A Carmine Donnola offre un piccolo ruolo. Poi decide di realizzare un intero film su di lui (prodotto da Ivan Brienza per Cutfish e con la collaboraz­ione della Lucana Film Commission).

In una scena Donnola incontra gli amici nella cantina di Zorro, dove torna spesso. Compagni di bevute, riuniti attorno al tavolo. Ora lui beve solo acqua e declama poesie tra gli amici che scherzano, ridendo, «Ma quale poeta? Non hai nemmeno la licenza elementare» (in realtà ha la terza media, ripetuta due volte). Leopoldo

Scrofolo è dedicata all’amico Antonio Salerno (scomparso due settimane fa), che gli siede accanto. Lo ha sempre chiamato così, ispirandos­i al quadro del Teomondo Scrofalo di Ezio Greggio in Drive in. Qui ricompare Carlo Levi, che a Grassano arrivò come prima tappa del suo confino lucano. «Quello che non ha mai detto Carlo Levi/ lo ha detto Leopoldo Scrofolo/ un omino con la bisaccia che ama/ la bottiglia e il trinciato/ dietro i cinti da Carlo Levi dipinti/ ha cozzato troppo contro il mondo».

Dalla «grotta di Zorro» Carmine porta a casa delle bottiglie. Sostituirà le etichette che un tempo grattava via con le unghie, con delle poesie. «Il mio corpo è stanco. Ma questo non mi ha impedito di fare quello che sto facendo. Masticare chilometri».

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