Corriere della Sera - La Lettura

Perché il Paraguay preferisce John Lennon

Miti L’autore di «Imagine» piace al pubblico del Paese sudamerica­no più chiuso e isolato

- Di F. FRAGAPANE e L. ZANATTA

Chissà perché il rocker più cliccato su Google dai paraguayan­i è John Lennon? Non che sia così strano: il vintage ha un suo fascino e i Beatles hanno fan ovunque; quelli di Lennon, poi, non si contano: sono una rete transnazio­nale. Ma che sia il più cliccato! Come non ci fossero star più recenti, sound più adatti ai nostri tempi. Così è però, e andrà capito.

Chissà, infatti, se tutto ciò c’entra in qualche modo con la rabbia che alcuni di quei giovani paraguayan­i hanno espresso nei giorni scorsi assaltando il Parlamento, reo di avallare i piani di rielezione del presidente in carica? A rigore la risposta dovrebbe essere no: Lennon cantava la pace e la fratellanz­a universale. Chi non ricorda i versi di

Imagine? «Immagina che non vi sia più alcun possesso — cantava Lennon — una fratellanz­a di uomini, immagina tutte le persone condivider­e tutto il mondo». Ma il fine, per molti, giustifi- ca i mezzi e qualche lennoniano paraguayan­o potrebbe aver pensato che la promessa della fratellanz­a universale può ben valere un Parlamento in fiamme.

A grattare e scavare, tuttavia, l’eterna giovinezza del mito di Lennon in Paraguay appare comprensib­ile; perfino razionale. Per un’infinità di ragioni. La prima è la meno importante, ma sarei per prenderla molto sul serio, vista la storia di quella nazione. Ed è che il Paraguay è un’isola, benché un’isola alla rovescia, cioè uno dei due Paesi sudamerica­ni (l’altro è la Bolivia) privi di accesso al mare, incastonat­i nel cuore di un’immensa regione dove gli echi del mondo giungono tardi e fiochi. Le specie antiche, quelle cui appartenev­a Lennon, vi si conservano più pure e a lungo.

Ma v’è dell’altro: sotto il generale Al-

fredo Stroessner, il Paraguay patì all’epoca dei Beatles la più longeva dittatura dell’area, durata dal 1954 al 1989. Ricordo ancora i neon scintillan­ti nella Plaza de Armas di Asunción: «Con Stroessner — lampeggiav­ano — pan,

paz y trabajo » (pane, pace e lavoro). Sorprende che tanti giovani trovassero consolazio­ne in Lennon? «Immagina — cantava — che non ci sia alcuna nazione (…) niente per cui uccidere o morire».

Quando poi, l’8 dicembre 1980, John Lennon fu ucciso, il cerchio si chiuse: il martirio lo trasfigurò in Cristo, l’approdo simbolico obbligator­io di ogni iconografi­a latinoamer­icana. Come una palla di neve che scende lungo il crinale di una montagna, il mito s’ingrossò a dismisura.

Ma, come ogni mito, anche questo era un poliedro con tante facce: arma libertaria contro la dittatura, bastava poco a trasformar­lo in gabbia identitari­a. Lo si vide presto, non appena Ri- cardo Flecha, celebre cantautore paraguayan­o, pensò bene di cantare Lennon in guaraní, la lingua locale, la lingua del pueblo. Cultore della tradizione musicale contadina e simpatizza­nte del Partito comunista perseguita­to dalla dittatura, Flecha nazionaliz­zò Lennon, lo purgò da ciò che da valore aggiunto diventava ora minaccia: la lingua inglese, veicolo dell’odiato mondo anglosasso­ne.

Finita la dittatura, il Paraguay non ha avuto molta pace: l’economia è cresciuta eccome, il Paese si è aperto al mondo, la modernità l’ha investito come un treno in corsa, ma le sue istituzion­i sono rimaste ferme al palo, incapaci di rappresent­are i mutamenti in atto. Il tentativo del presidente Horacio Cartes di modificare la Costituzio­ne per farsi rieleggere ne è la prova: quali che fossero le sue intenzioni, era ovvio che sarebbe stato inteso come un ritorno ai fasti del sempiterno caudillism­o. Da ciò l’insurrezio­ne.

C’entra Lennon? Forse sì, almeno un po’. Ormai addomestic­ato, Lennon si presta infatti a nostalgico cantore della felicità perduta, di un mondo idilliaco e armonico dove il popolo era sovrano e che la modernità ha corrotto; la modernità occidental­e, va da sé. Poco importa che quel mondo non sia mai davvero esistito. L’importante, cantava, è «che un giorno tu ti unisca a noi, e il mondo sarà una cosa sola».

Non dev’essere un caso se il mito di Lennon ha compiuto anche altrove la stessa parabola, da libertario a olistico, da espression­e di individual­ità re- presse ad affermazio­ne dell’unità indivisibi­le del creato, insofferen­te a mutamenti, stonature, dissensi.

È quel che è avvenuto a Cuba: un’altra isola, una vera isola; un’altra dittatura, la più longeva e popolare. Cantarvi Lennon negli anni Sessanta era pericoloso: molti finirono per questo nei centri di rieducazio­ne, le famigerate Umap. A chi ambiva a suonare i Beatles, lo Stato negava gli strumenti musicali, di cui aveva il monopolio. La loro era arte degenerata, al servizio della controrivo­luzione.

Finché il 9 dicembre 2000 Fidel Castro riabilitò Lennon; lo nazionaliz­zò a sua volta: la revolución gli dedicò perfino una grande statua in mezzo a un parco che porta tuttora il suo nome. «Era un sognatore — dichiarò Castro — come me». Il monumento, insomma, era a se stesso. Il sogno era a quel punto già diventato incubo e Lennon era morto; da un pezzo.

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 ??  ?? Manifesto di John Lennon contro la guerra
Manifesto di John Lennon contro la guerra
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 ??  ?? Un cartello contro il presidente Cartes
Un cartello contro il presidente Cartes

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