Corriere della Sera - La Lettura
Di tutti un po’, e viene fuori «Il Nix»
Nel suo clamoroso esordio Nathan Hill sembra aver combinato elementi di Lethem, Wallace e Chabon
Dopo aver passato decenni a cantare per i più grandi direttori d’orchestra del mondo, Placido Domingo cominciò a nche a di r i gere orc hest re preparandosi al momento nel quale, per raggiunti limiti di età, lascerà definitivamente il palcoscenico e salirà sul podio. Una volta gli chiesero a quale direttore si ispirasse e Domingo, che è molto spiritoso, rispose che a Karajan avrebbe rubato una cosa, a Muti un’altra, ad Abbado un’altra ancora e così via, creando alla fine l’identikit del direttore perfetto (e il tenore chiuse la storiella con una battuta fulminante: «A Carlos Kleiber, semplicemente, vorrei poter rubare tutto»). Nathan Hill, autore di Il Nix, appena uscito in Italia, ha cercato di fare un po’ la stessa cosa: «rubare» i punti di forza di tanti colleghi suoi contemporanei.
Da Jonathan Lethem ha preso il tema dell’ossessione del figlio maschio cresciuto senza mamma, da Michael Chabon l’agilità nel viaggiare da un punto all’altro della recente storia americana, da David Foster Wallace l’idea che il mondo mediato nel quale ci troviamo non può essere raccontato né con i normali strumenti del realismo né con quelli del postmodernismo alla Pynchon.
Impressiona la reazione critica americana al libro di Hill — dalle lodi di John Irving alle classifiche dei migliori libri del 2016 — ma impressiona anche, e soprattutto, che sia il suo primo romanzo. Hill ha esordito quarantenne dopo una serie di vicissitudini che avrebbero spezzato le motivazioni di molti: un libro già scritto e rubato, insieme con la sua auto, i suoi abiti e il suo computer, in una strada di Queens; 38 agenti che, letta la sua raccolta di racconti tuttora inedita, lo rifiutarono come cliente; una stesura molto lunga, per Il Nix, che ha attraversato quasi un decennio. In questo senso è un primo libro atipico perché impressiona con la sicurezza dei mezzi tecnici nettamente superiore a quella di un normale esor- diente; ma, talento a parte, Hill fa eccezione alla regola del mondo editoriale americano che crea una cinghia di trasmissione tra università (le mitiche facoltà di «scrittura creativa») e case editrici portando autori molto giovani a esordire (chi poi continua a pubblicare è bravo; negli ultimi decenni c’è anche, spesso, chi sparisce).
Un mondo che non c’è più, quello dell’America dell’immediato dopoguerra nel quale l’uscita di un romanzo era ancora un importante evento culturale (oggi ci sconvolge la copertina di «Time» dedicata a Jonathan Franzen, un tempo era cosa normale) e nel quale ai giovani scrittori era permesso di sbagliare in pubblico — Gore Vidal ricordava spesso, senza vergogna, di aver trovato la sua voce come autore all’ottavo libro pubblicato, e di come a parte il primo e il terzo gli altri non fossero buoni. Oggi un maestro come Vidal finirebbe cancellato dal mondo editoriale prima di poter trovare la sua voce all’ottavo tentativo; Cormac McCarthy, altro gigante, vendette circa 10 mila copie in totale dei suoi primi tre libri, e oggi la sua carriera finirebbe lì, niente Meridiano di sangue nel canone americano, niente milione di copie vendute da The Road.
Bravo allora Nathan Hill a presentarsi all’esordio da scrittore già sicurissimo dei propri mezzi, affinati da una riscrittura dopo l’altra, e con l’autorità di quel mash-up che mescola i temi dei grandi scrittori americani di questi anni. Il suo protagonista, Samuel Andresen-Anderson è uno scrittore fallito, che insegna all’università di giorno e gioca ai videogame di notte finché gli viene offerta la possibilità di scrivere un libro su sua madre, che lo abbandonò bambino ed è diventata famosa per aver preso a sassate il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti.
Il ’68 descritto da Hill — che scivola come un discesista libero tra le epoche, il più grande sfoggio di bravura in un libro che ne è pieno — è buffo e realistico, anche se la miglior descrizione del caos assoluto di quell’anno in America resta, in tempi recenti, quella di uno storico, Rick Perlstein, in Nixonland.
Hill utilizza le armi dello humour — un altro dei suoi punti di forza — per addolcire una storia di solitudine e fallimenti (umani, professionali) che strutturalmente è molto, molto triste, e così facendo riesce a non far deragliare il libro. Però, quanto c’è di premeditato — per non dire di un po’ cinico — nell’umanesimo di Il Nix (il «nix» è lo spiritello malevolo della tradizione norvegese che rovina la vita di coloro ai quali si affianca)? A giudicare dalla reazione degli editori (16 traduzioni già garantite al momento della firma del contratto di pubblicazione americana, alle quali se ne sono aggiunte in questi mesi altre 14: 30 lingue in totale) e di Hollywood (J. J. Abrams e la Warner Bros Television trasformeranno il romanzo in una serie tv con Meryl Streep nei panni della madre) Hill ha fatto bene a fare così. Certo, si potrebbe anche pensare che abbia creato un pastiche — di straordinaria bravura tecnica, e che merita di essere letto — di Lethem senza le invenzioni pirotecniche di Lethem, di Wallace senza la sua disperazione e la sua assoluta empatia, e di Chabon senza il genio di Chabon.
Hill è sposato con una musicista classica ma è cresciuto nell’era di Mtv, quella che ha venduto a una generazione di adolescenti, non solo americani, l’idea della trasgressione infiocchettata dal marketing e opportunamente depotenziata — la rivoluzione fatta soltanto con il permesso dei carabinieri, ripeteva Indro Montanelli.