Corriere della Sera - La Lettura
Addio al sobrio borghese Il suo successo l’ha ucciso
Letteratura Secondo Franco Moretti la figura protagonista del romanzo moderno è ormai un ricordo del passato Il percorso ideale parte da Defoe e arriva a Ibsen. Ma oggi nessuno sente il bisogno di giustificare la ricchezza
Che cosa è stato il borghese? E perché parlarne al passato? È tranchant il responso di Franco Moretti nel suo nuovo saggio, Il borghese, già uscito in America e ora tradotto da Einaudi. Il borghese è stato, più che un protagonista storico concreto, il tipo ideale di un assetto sociale, una complessa pratica di legittimazione linguistica, concettuale, narrativa, e solo mediatamente e non premeditatamente ideologica: uno stile, la cui storia si può ricostruire come una parabola conclusa, dalla sua genesi alla sua dissoluzione.
Il borghese non si identifica con il capitalismo (tutt’altro che scomparso, e perfettamente compatibile con culture e latitudini che più diverse non potrebbero essere da quelle in cui nacque, caste indiane, sceicchi arabi, mandarini cinesi): lo ha interpretato fino a che gli è stato possibile e le sue componenti vitali non sono entrate in contrasto — ma non in conflitto: ci torneremo — tra di loro. Interpretato nel senso in cui si dice che un attore interpreta una parte. Attore sociale, dicono i sociologi, forse non tutti consapevoli di quanto la metafora teatrale continui a vigere nella definizione.
Solo uno storico della letteratura avrebbe potuto scrivere un libro come questo. Non perché la letteratura sia una trasparente trasposizione dei fatti sociali in storie inventate, ma perché la letteratura si intende di stile, uso delle parole, gestione di contraddizioni che nella società non trovano esiti, e in particolare della più straordinaria invenzione stilistica dell’età borghese: la prosa, la prosa analitica, aliena da fronzoli, sospettosa delle metafore, meticolosa, imperniata sui nessi causali, attenta ai fini senza preoccuparsi del Fine. Lo stile del disincanto e della razionalità strumentale, freddo, onesto, serio, che bada al sodo e guarda le cose come stanno, calcola possibilità, previene l’imprevisto, non coltiva stupore o entusiasmo, ma assicurazione e controllo. Un’etica molto rigorosa che non si spaventa davanti a ciò che perde, il compenso oltremondano, il sentimento della natura, le aspirazioni vaghe, l’indeterminato.
Moretti scandisce il suo percorso in cinque capitoli. Nel primo affronta il mito fondatore dell’individuo borghese, Robinson Crusoe: un padrone lavoratore che lavora anche oltre il bisogno e non vede in ciò alcuna irrazionalità (lo notò Max Weber), organizza con scrupolo il suo tempo, e le cui azioni vengono descritte da Defoe attraverso un ritmo triadico sempre uguale: avendo risolto questo problema (gerundio passato, frequentissimo), mi misi a riflettere su come potevo risolvere quest’altro (presente e futuro legati da un nesso di finalità e di utilità, con uno sguardo che trasforma tutto in utensile).
Ma Robinson era ancora un personaggio dell’Ancien Régime, la sua era un’etica allo stato nascente. Che succede nel- l’Ottocento, quando la borghesia diventa egemone e i suoi valori devono farsi paradigmatici per tutti? La spinta propulsiva inizia a esaurirsi. Nel secondo capitolo — con un salto d’epoca forse frettoloso che lo porta a trascurare l’emergere di altri tratti stilistici borghesi non suscettibili di rientrare nel suo schema, come la palma dell’umorismo strappata all’aristocrazia dagli illuministi, e soprattutto il sentimentalismo settecentesco di Richardson, Diderot, Rousseau e di tutta la Rivoluzione francese, che fu una leva politica potente: è la principale obiezione che gli si può muovere — Moretti sostiene che la grande innovazione stilistica del realismo ottocentesco è lo spostamento d’accento dall’azione al riempitivo (conversazioni, descrizioni, dettagli): non più colpi di scena melodrammatici, non più tributi alla grande storia, ma una microfisica dell’esistenza quotidiana assurta al rango di oggetto di rappresentazione seria. Meno azioni e meno ancora interrogazioni sul senso: le cose sono come sono e non serve a nulla chiedersi se sono come dovrebbero essere. Non c’è altro. La serietà, lo scrupolo, il disincanto conducono al nichilismo di Flaubert.
Nel continente si reagirà a un realismo divenuto raggelante — la borghesia, diceva Marx, dissolve il vecchio mondo come un ammasso di inutili favole — con la scappatoia dell’arte per l’arte. Nell’Inghilterra vittoriana, troppo moralizzante per permettersela, sostiene il terzo capitolo, una borghesia spaventata da sé stessa tenterà invece di ripristinare un nesso tra cose e senso attraverso la creazione di un effetto «nebbia» che offusca il nudo pragma dietro valori vaghi — l’ideale, il «bene», la concordia, la serietà non più come impavido desiderio di vedere, ma come saggezza nel non pretendere di vedere troppo i rapporti di classe, il dominio del denaro, le scoperte della scienza… Mentre in aree più periferiche (quarto capitolo: Brasile, Polonia, la Sicilia del nostro Mastro-don Gesualdo) si metterà in scena una borghesia troppo fragile e troppo recente per resistere al potere tanto maggiore di legittimazione che viene dalla sopravvivenza dei gusti aristocratici (qui ci sarebbe stato bene anche d’Annunzio).
Infine Ibsen, quinto capitolo, la crisi definitiva, il collasso dell’edificio della serietà e della probità, a misura che il capitalismo evolve sempre più verso la speculazione, la scommessa su ciò che non è garantibile, la consapevolezza sempre rimossa e sempre riaffiorante che qualcuno perderà perché qualcuno possa vincere, in una «zona grigia», scrive Moretti, tra il lecito e l’illecito che trascende il mero problema della legalità. Se gli eroi dei primi drammi di Ibsen parlano ancora la sobria lingua borghese tutta fatti, quelli degli ultimi partono di continuo per la tangente della metafora. Ma senza che in loro si generi conflitto, perché il conflitto esige superamento; piuttosto disagio, malessere, nevrosi, «delirio», chioserà il più grande poeta borghese del Novecento, Eugenio Montale, «di immobilità».
Dal movimento razionale al pantano nevrotico. Lo stile borghese soccombe al suo successo, che gli permette di impadronirsi del mondo, ma non di gestirne la trasformazione, sua aspirazione essendo, oltre al movimento e alla conquista, anche la stabilità. Moretti interpola i capitoli con intermezzi dedicati alle parole chiave del borghese: Utile, Efficienza, Serietà, Comfort (contro il lusso), Realtà, Roba, Continuità, Oggettività, con tutto il loro freddo pathos, di cui oggi solo un esercizio di immaginazione storica permette di capire quanto fu a suo modo eroico. Fondamento dello stile borghese era l’accountability, la responsabilità intesa come essere sempre pronti a rispondere: ciò che ho fatto testimonierà che non ho trascorso il tempo invano, dice Robinson sulla sua isola, dove non lo vede nessuno. Che le classi dirigenti attuali non abbiano più nulla di borghese salta agli occhi. Né si può dire abbiano creato un nuovo stile che le legittimi. Chissà se ne vedremo mai uno, o se il punto d’onore del borghese — il tuo dominio dev’essere giustificato: laicizzazione di un originario impulso religioso — è un’istanza di cui una pura logica di dominio e di sopraffazione non ha ormai più bisogno.