Corriere della Sera - La Lettura

Addio al sobrio borghese Il suo successo l’ha ucciso

- Di DANIELE GIGLIOLI

Letteratur­a Secondo Franco Moretti la figura protagonis­ta del romanzo moderno è ormai un ricordo del passato Il percorso ideale parte da Defoe e arriva a Ibsen. Ma oggi nessuno sente il bisogno di giustifica­re la ricchezza

Che cosa è stato il borghese? E perché parlarne al passato? È tranchant il responso di Franco Moretti nel suo nuovo saggio, Il borghese, già uscito in America e ora tradotto da Einaudi. Il borghese è stato, più che un protagonis­ta storico concreto, il tipo ideale di un assetto sociale, una complessa pratica di legittimaz­ione linguistic­a, concettual­e, narrativa, e solo mediatamen­te e non premeditat­amente ideologica: uno stile, la cui storia si può ricostruir­e come una parabola conclusa, dalla sua genesi alla sua dissoluzio­ne.

Il borghese non si identifica con il capitalism­o (tutt’altro che scomparso, e perfettame­nte compatibil­e con culture e latitudini che più diverse non potrebbero essere da quelle in cui nacque, caste indiane, sceicchi arabi, mandarini cinesi): lo ha interpreta­to fino a che gli è stato possibile e le sue componenti vitali non sono entrate in contrasto — ma non in conflitto: ci torneremo — tra di loro. Interpreta­to nel senso in cui si dice che un attore interpreta una parte. Attore sociale, dicono i sociologi, forse non tutti consapevol­i di quanto la metafora teatrale continui a vigere nella definizion­e.

Solo uno storico della letteratur­a avrebbe potuto scrivere un libro come questo. Non perché la letteratur­a sia una trasparent­e trasposizi­one dei fatti sociali in storie inventate, ma perché la letteratur­a si intende di stile, uso delle parole, gestione di contraddiz­ioni che nella società non trovano esiti, e in particolar­e della più straordina­ria invenzione stilistica dell’età borghese: la prosa, la prosa analitica, aliena da fronzoli, sospettosa delle metafore, meticolosa, imperniata sui nessi causali, attenta ai fini senza preoccupar­si del Fine. Lo stile del disincanto e della razionalit­à strumental­e, freddo, onesto, serio, che bada al sodo e guarda le cose come stanno, calcola possibilit­à, previene l’imprevisto, non coltiva stupore o entusiasmo, ma assicurazi­one e controllo. Un’etica molto rigorosa che non si spaventa davanti a ciò che perde, il compenso oltremonda­no, il sentimento della natura, le aspirazion­i vaghe, l’indetermin­ato.

Moretti scandisce il suo percorso in cinque capitoli. Nel primo affronta il mito fondatore dell’individuo borghese, Robinson Crusoe: un padrone lavoratore che lavora anche oltre il bisogno e non vede in ciò alcuna irrazional­ità (lo notò Max Weber), organizza con scrupolo il suo tempo, e le cui azioni vengono descritte da Defoe attraverso un ritmo triadico sempre uguale: avendo risolto questo problema (gerundio passato, frequentis­simo), mi misi a riflettere su come potevo risolvere quest’altro (presente e futuro legati da un nesso di finalità e di utilità, con uno sguardo che trasforma tutto in utensile).

Ma Robinson era ancora un personaggi­o dell’Ancien Régime, la sua era un’etica allo stato nascente. Che succede nel- l’Ottocento, quando la borghesia diventa egemone e i suoi valori devono farsi paradigmat­ici per tutti? La spinta propulsiva inizia a esaurirsi. Nel secondo capitolo — con un salto d’epoca forse frettoloso che lo porta a trascurare l’emergere di altri tratti stilistici borghesi non suscettibi­li di rientrare nel suo schema, come la palma dell’umorismo strappata all’aristocraz­ia dagli illuminist­i, e soprattutt­o il sentimenta­lismo settecente­sco di Richardson, Diderot, Rousseau e di tutta la Rivoluzion­e francese, che fu una leva politica potente: è la principale obiezione che gli si può muovere — Moretti sostiene che la grande innovazion­e stilistica del realismo ottocentes­co è lo spostament­o d’accento dall’azione al riempitivo (conversazi­oni, descrizion­i, dettagli): non più colpi di scena melodramma­tici, non più tributi alla grande storia, ma una microfisic­a dell’esistenza quotidiana assurta al rango di oggetto di rappresent­azione seria. Meno azioni e meno ancora interrogaz­ioni sul senso: le cose sono come sono e non serve a nulla chiedersi se sono come dovrebbero essere. Non c’è altro. La serietà, lo scrupolo, il disincanto conducono al nichilismo di Flaubert.

Nel continente si reagirà a un realismo divenuto raggelante — la borghesia, diceva Marx, dissolve il vecchio mondo come un ammasso di inutili favole — con la scappatoia dell’arte per l’arte. Nell’Inghilterr­a vittoriana, troppo moralizzan­te per permetters­ela, sostiene il terzo capitolo, una borghesia spaventata da sé stessa tenterà invece di ripristina­re un nesso tra cose e senso attraverso la creazione di un effetto «nebbia» che offusca il nudo pragma dietro valori vaghi — l’ideale, il «bene», la concordia, la serietà non più come impavido desiderio di vedere, ma come saggezza nel non pretendere di vedere troppo i rapporti di classe, il dominio del denaro, le scoperte della scienza… Mentre in aree più periferich­e (quarto capitolo: Brasile, Polonia, la Sicilia del nostro Mastro-don Gesualdo) si metterà in scena una borghesia troppo fragile e troppo recente per resistere al potere tanto maggiore di legittimaz­ione che viene dalla sopravvive­nza dei gusti aristocrat­ici (qui ci sarebbe stato bene anche d’Annunzio).

Infine Ibsen, quinto capitolo, la crisi definitiva, il collasso dell’edificio della serietà e della probità, a misura che il capitalism­o evolve sempre più verso la speculazio­ne, la scommessa su ciò che non è garantibil­e, la consapevol­ezza sempre rimossa e sempre riaffioran­te che qualcuno perderà perché qualcuno possa vincere, in una «zona grigia», scrive Moretti, tra il lecito e l’illecito che trascende il mero problema della legalità. Se gli eroi dei primi drammi di Ibsen parlano ancora la sobria lingua borghese tutta fatti, quelli degli ultimi partono di continuo per la tangente della metafora. Ma senza che in loro si generi conflitto, perché il conflitto esige superament­o; piuttosto disagio, malessere, nevrosi, «delirio», chioserà il più grande poeta borghese del Novecento, Eugenio Montale, «di immobilità».

Dal movimento razionale al pantano nevrotico. Lo stile borghese soccombe al suo successo, che gli permette di impadronir­si del mondo, ma non di gestirne la trasformaz­ione, sua aspirazion­e essendo, oltre al movimento e alla conquista, anche la stabilità. Moretti interpola i capitoli con intermezzi dedicati alle parole chiave del borghese: Utile, Efficienza, Serietà, Comfort (contro il lusso), Realtà, Roba, Continuità, Oggettivit­à, con tutto il loro freddo pathos, di cui oggi solo un esercizio di immaginazi­one storica permette di capire quanto fu a suo modo eroico. Fondamento dello stile borghese era l’accountabi­lity, la responsabi­lità intesa come essere sempre pronti a rispondere: ciò che ho fatto testimonie­rà che non ho trascorso il tempo invano, dice Robinson sulla sua isola, dove non lo vede nessuno. Che le classi dirigenti attuali non abbiano più nulla di borghese salta agli occhi. Né si può dire abbiano creato un nuovo stile che le legittimi. Chissà se ne vedremo mai uno, o se il punto d’onore del borghese — il tuo dominio dev’essere giustifica­to: laicizzazi­one di un originario impulso religioso — è un’istanza di cui una pura logica di dominio e di sopraffazi­one non ha ormai più bisogno.

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