Corriere della Sera - La Lettura

Sette storie, una vita Tutti i timori di Irene e qualche rimedio

- Di FRANCESCO PICCOLO

Debutti Ilaria Macchia si presenta con questo «Ho visto un uomo a pezzi»: durerà, la vedremo crescere e farci compagnia Le trame C’è la sera in cui i genitori mettono sotto una donna; c’è il periodo in cui è nuda; ci sono uomini come Piero, che è sposato

Irene, di solito, è spaventata. È come se il destino le avesse costruito una minaccia pochi metri più avanti, e lei proseguiss­e mai sollevata dal fatto di non averla trovata, perché tanto sa bene che è sempre lì davanti a lei, alla stessa distanza, come un orizzonte angoscioso: non si materializ­za e non scompare; tutti gli squarci di vita che si palesano nella luce forte del Salento hanno come protagonis­ta questa ragazza/donna che ha una caratteris­tica costante: ha un piede dentro il mondo, e un piede fuori. Vive e si guarda vivere, non si abbandona mai fino in fondo. È cosciente della sua bellezza, e anche del fatto che non le serve per proteggers­i, perché il suo dolore è sotterrane­o, sfuggente, passa sotto la pelle e non è mai fermo in un punto. Non sa bene perché soffre, quindi non saprebbe come guarire. Insomma, c’è proprio qualcosa che non va: «La mia posizione sbagliata mentre mangiavo, mentre dormivo, mentre scopavo. La mia posizione sbagliata. La mia posizione sbagliata mentre vivevo, mentre amavo, mentre sceglievo. La mia posizione nuda».

Ilaria Macchia esordisce così, con queste sette storie di Ho visto un uomo a pezzi (Mondadori), ed è un debutto del tutto convincent­e. C’è la sera in cui i genitori di Irene mettono sotto una donna, c’è il periodo in cui Irene è nuda davanti agli altri per l a vo ro, c ’è un a ppuntament­o co n un’amica conosciuta da poco e che si rivelerà tragico. Ci sono gli uomini come Piero, sposato, che salta di racconto in racconto, presente nella realtà o nell’ossessione — «Cercai di tamponargl­i la ferita, ma il sangue scorreva tanto. Pensai che volevo affacciarm­i di nuovo sul balcone, per capi- re se quello che mi era sembrato Piero era davvero lui, ma dovetti badare al bambino». C’è Gianluca e la sfida con sua mamma, c’è Giovanni con cui Irene ha fatto un figlio. C’è l’ossessione del ritorno continuo nella casa dei genitori, due personaggi silenziosi e intimiditi dai figli. Ci sono momenti bellissimi come quando Irene scava un buco nel muro, stando seduta a terra di schiena; o come quando si ferma in macchina di notte sul lungomare a parlare con la sorella. Ci sono racconti come L’ora migliore e Fantasmi che sono difficili da dimenticar­e, e lasciano al lettore il piacere della scrittura in stato di grazia. C’ è, in questo libro, la grande imprecisio­ne della vita raccontata con la precisione che riscatta l’esistenza attraverso uno sguardo.

I racconti hanno tutti la voce di Irene (anche se in Meduse non c’è solo la sua voce, ma anche quella dei suoi fratelli), ma non vogliono essere un romanzo, anzi ogni storia conserva la sua autonomia. Eppure, naturalmen­te, si arriva alla fine del libro con l’idea di aver attraversa­to, toccando punti sparsi e disordinat­i, una sola esistenza; e qualche antidoto funzionant­e per saperci stare dentro, al malessere, anche quando non arriva da un’origine visibile. La voce di Irene mostra senza pudore la sua incapacità di essere fino in fondo nelle cose, l’essenza nuda del sentirsi in bilico, del sentirsi incompiuti, e per questo speciali; e allo stesso tempo mostra la sua capacità di saper toccare in profondità le pieghe serie e superficia­li della vita. Perché sia Ilaria Macchia, sia la protagonis­ta dei suoi racconti (grazie a questo spavento, a questa minaccia) hanno il dono di saper guardare il mondo, le cose che accadono, i dettagli e la potenza che emanano. E hanno il dono della spudoratez­za, e un modo di accogliere gli eventi della vita con scetticism­o. E tutto ha a che fare con questo pie-

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