Corriere della Sera - La Lettura
Sette storie, una vita Tutti i timori di Irene e qualche rimedio
Debutti Ilaria Macchia si presenta con questo «Ho visto un uomo a pezzi»: durerà, la vedremo crescere e farci compagnia Le trame C’è la sera in cui i genitori mettono sotto una donna; c’è il periodo in cui è nuda; ci sono uomini come Piero, che è sposato
Irene, di solito, è spaventata. È come se il destino le avesse costruito una minaccia pochi metri più avanti, e lei proseguisse mai sollevata dal fatto di non averla trovata, perché tanto sa bene che è sempre lì davanti a lei, alla stessa distanza, come un orizzonte angoscioso: non si materializza e non scompare; tutti gli squarci di vita che si palesano nella luce forte del Salento hanno come protagonista questa ragazza/donna che ha una caratteristica costante: ha un piede dentro il mondo, e un piede fuori. Vive e si guarda vivere, non si abbandona mai fino in fondo. È cosciente della sua bellezza, e anche del fatto che non le serve per proteggersi, perché il suo dolore è sotterraneo, sfuggente, passa sotto la pelle e non è mai fermo in un punto. Non sa bene perché soffre, quindi non saprebbe come guarire. Insomma, c’è proprio qualcosa che non va: «La mia posizione sbagliata mentre mangiavo, mentre dormivo, mentre scopavo. La mia posizione sbagliata. La mia posizione sbagliata mentre vivevo, mentre amavo, mentre sceglievo. La mia posizione nuda».
Ilaria Macchia esordisce così, con queste sette storie di Ho visto un uomo a pezzi (Mondadori), ed è un debutto del tutto convincente. C’è la sera in cui i genitori di Irene mettono sotto una donna, c’è il periodo in cui Irene è nuda davanti agli altri per l a vo ro, c ’è un a ppuntamento co n un’amica conosciuta da poco e che si rivelerà tragico. Ci sono gli uomini come Piero, sposato, che salta di racconto in racconto, presente nella realtà o nell’ossessione — «Cercai di tamponargli la ferita, ma il sangue scorreva tanto. Pensai che volevo affacciarmi di nuovo sul balcone, per capi- re se quello che mi era sembrato Piero era davvero lui, ma dovetti badare al bambino». C’è Gianluca e la sfida con sua mamma, c’è Giovanni con cui Irene ha fatto un figlio. C’è l’ossessione del ritorno continuo nella casa dei genitori, due personaggi silenziosi e intimiditi dai figli. Ci sono momenti bellissimi come quando Irene scava un buco nel muro, stando seduta a terra di schiena; o come quando si ferma in macchina di notte sul lungomare a parlare con la sorella. Ci sono racconti come L’ora migliore e Fantasmi che sono difficili da dimenticare, e lasciano al lettore il piacere della scrittura in stato di grazia. C’ è, in questo libro, la grande imprecisione della vita raccontata con la precisione che riscatta l’esistenza attraverso uno sguardo.
I racconti hanno tutti la voce di Irene (anche se in Meduse non c’è solo la sua voce, ma anche quella dei suoi fratelli), ma non vogliono essere un romanzo, anzi ogni storia conserva la sua autonomia. Eppure, naturalmente, si arriva alla fine del libro con l’idea di aver attraversato, toccando punti sparsi e disordinati, una sola esistenza; e qualche antidoto funzionante per saperci stare dentro, al malessere, anche quando non arriva da un’origine visibile. La voce di Irene mostra senza pudore la sua incapacità di essere fino in fondo nelle cose, l’essenza nuda del sentirsi in bilico, del sentirsi incompiuti, e per questo speciali; e allo stesso tempo mostra la sua capacità di saper toccare in profondità le pieghe serie e superficiali della vita. Perché sia Ilaria Macchia, sia la protagonista dei suoi racconti (grazie a questo spavento, a questa minaccia) hanno il dono di saper guardare il mondo, le cose che accadono, i dettagli e la potenza che emanano. E hanno il dono della spudoratezza, e un modo di accogliere gli eventi della vita con scetticismo. E tutto ha a che fare con questo pie-