Corriere della Sera - La Lettura

Mamma serva, figlia libera Resa dei conti nel 1972

- Di MATTEO GIANCOTTI

Francesca Capossele esordisce alla soglia dei sessant’anni con un romanzo potente sulla disgregazi­one affettiva di un nucleo familiare. Tutto avviene tra Ferrara, Bologna e la Nigeria

Succede a volte che la trasfigura­zione poetica di una vicenda o di un’epoca produca il massimo effetto di evidenza documentar­ia. Francesca Capossele in 1972 fa uso abbondante, come altri narratori, di metafore e similitudi­ni; nella sua prosa, però, la metafora non è ornamento o effetto speciale, ma la fibra stessa della scrittura. L’autrice, esordiente alla soglia dei sessant’anni, ha una grande consapevol­ezza letteraria e una perfetta conoscenza degli strumenti. 1972 è un libro che si regge su una memoria a lungo termine, che può emergere solo se interrogat­a obliquamen­te, ridisegnat­a da un linguaggio che rinuncia al racconto diretto. Qui, più che fatti, abbiamo atmosfere, cioè l’impronta che i fatti, una volta trascorsi, hanno lasciato su una memoria individual­e «curiosa e tenace», che attraverso la scrittura diventa memoria pubblica.

A parlare, nel libro, è una donna italiana da poco trasferita­si a Lagos, in Nigeria. Osserva intorno a sé il «paesaggio estraneo, rassicuran­te, vuoto», il prato all’inglese della scuola in cui insegna; da quel vuoto affiorano lentamente forme di un tempo e di uno spazio lontani. Vediamo un’antica casa di Ferrara che affaccia all’interno su un piccolo giardino chiuso. Anni Sessanta-Settanta. Dentro ci sono le voci e le esistenze di una famiglia borghese: il padre — figlio di «signori» — insegnante, la madre — figlia di un meccanico — casalinga; due figli grandi, Marcello di 17 anni, Cristina (la narratrice) di 16, e una bambina, Maria Luisa, di 5.

In poche pagine tutti i personaggi del quadro familiare sono ben più che tratteggia­ti, assumono una psicologia profonda. La figlia più piccola, in particolar­e, il personaggi­o apparentem­ente meno importante, è quello destinato a imporsi con l’ostinazion­e della sua presenza, sia da viva che da morta: Maria Luisa, la sorellina che «inseguiva in ogni stanza i familiari che tentavano di difendersi dalla sua presenza», l’«intrusa», la bambina «che nessuno aveva voluto», morirà presto di encefalite, poco dopo il 1972, l’anno che segna il destino di tutti i personaggi. Da pochi mesi la famiglia si è trasferita a Bologna, per insistenza del padre, che è stanco della sua vita provincial­e e vorrebbe orizzonti un po’ più ampi; desiderio egoistico che viene però ammantato di ragionevol­e e maturo altruismo. La madre resiste disperatam­ente, intuendo che quello spostament­o è il primo passo che il marito compie verso l’abbandono e la disgregazi­one del nucleo, che a lei riesce di tenere unito ormai solo a forza di ricatti affettivi e sensi di colpa. Cristina e Marcello, fratelli che si amano, si avviano uniti al grande cambiament­o, in una confusione di angoscia e allegria tipica dell’adolescenz­a.

A Bologna dunque Maria Luisa muore: sembra che tutto il male della sua famiglia «sia esploso» nel suo corpo. Solo allora i genitori e i fratelli si accorgono che è davvero esistita. Questo non impedisce al padre, a pochi giorni dalla disgrazia, di innamorars­i: la figlia Cristina lo intuisce subito da pochi segni esteriori e non sa dispiacers­ene; desidera il suo riscatto, vuole il meglio per lui, qualcosa di più del grigiore quotidiano che sua moglie gli offre. Lentamente, spietatame­nte, padre e figli emarginano la madre: non la amano, detestano il suo livore. Prima di sprofon-

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