Corriere della Sera - La Lettura

Il cecchino dentro la testa prende la mira e non spara

Paesaggi interiori Franco Arminio percorre l’Appennino, dove la «desolazion­e» ha preso il posto della «miseria», e affronta stati d’animo e necessità che diventano strumenti di conoscenza e riserve di energia per comprender­e il mondo

- Di EMANUELE TREVI

«Èil pensiero della fine/ che m’ispira./ Nella testa/ ho un cecchino/ che non spara,/ prende solo la mira». Raramente capita a uno scrittore l’occasione di formulare un autoritrat­to veritiero come questo di Franco Arminio. Gli basta una manciata di sillabe, connesse da un gioco sapiente di rime e assonanze, e un intero destino si staglia nettamente sul bianco della pagina. Come accadeva in certi indimentic­abili epigrammi composti in vecchiaia da Giorgio Caproni.

«Sono nato nell’ansia e lì sono rimasto», confessa Franco Arminio. La lettura dello scrittore irpino mi ha fatto spesso pensare al protagonis­ta di uno straordina­rio racconto di Henry James, La belva nella giungla, per il quale la durata stessa della vita equivale, senza intervalli significat­ivi, all’attesa di una catastrofe. Con la differenza che quello di James finisce per essere un apologo sull’esistenza mancata, e solo quando è troppo tardi arriva la consapevol­ezza che le cose sarebbero potute andare in maniera diversa. La psico- logia di Arminio consiste soprattutt­o di eredità e fatalità, pochissimo concedendo all’arbitrio individual­e e nulla all’eventualit­à di una guarigione. Tutto ciò che siamo è annidato nel sangue molto prima che la coscienza lo distingua e lo nomini. Il figlio si porta sulle spalle il «perenne sgomento» della madre, un’idea assolutame­nte provvisori­a e minacciata della vita, «come se bastasse un cenno/ a sparpaglia­re nel nulla le membra».

Da sempre, qualunque sia il loro argomento immediato, la scrittura di Arminio ci racconta di come certe necessità, certi aspetti della conformazi­one interio- re, diventino strumenti di conoscenza, riserve di energia a disposizio­ne di un processo di comprensio­ne del mondo. Il sintomo nevrotico, pur restìo a ogni trasformaz­ione, è in grado di comportars­i come un angelo, un mediatore: rende possibile uno scambio di messaggi tra il poeta e il mondo. Ovviamente, si tratta di un modo di conoscere radicalmen­te frammentar­io, si esprima in versi o in prosa. La misura breve è il respiro ideale di Arminio, così come il singolo giorno è l’unità di misura fondamenta­le del suo sentimento del tempo. Il «cecchino» annidato nella testa non permette orizzonti più ampi, bisogna arraffare alle cose quel tanto di saggezza che ci concedono in cambio dell’attenzione con cui siamo in grado di guardarle.

È questa la radice del su ostile, la scommessa sempre rinnovata di una necessità ingovernab­ile che si trasforma in libertà. E dunque, se Arminio non manca mai di informarci sul fatto che i suoi esercizi di coscienza manifestan­o una patologia, il male è pur sempre considerat­o come un modo di percepire le cose, e in ultima analisi come un’ars poetica. Vale per quello che mostra, non per quello che è. La malattia insomma trascende la psicologia, si sporge sul mondo, gli conferisce una speciale intensità che è la stessa dell’atto creativo, della metafora rivelatric­e.

Le poesie e le prose brevi di Cedi la strada agli alberi (Chiarelett­ere) sono una sintesi felicissim­a della scrittura di Franco Arminio, di quel suo singolaris­simo e prezioso impasto di lirismo, memoria, senso esatto delle proporzion­i umane. Nel corso del tempo, lo scrittore irpino ha allargato l’interstizi­o fra la psiche e il nulla collocando in quella terra di confine un intero paesaggio, che come tutte le autentiche creazioni dello spirito possiede in grado supremo i caratteri della realtà presente e quelli dell’immaginazi­one e del ricordo. Ventoso, spopolato, lontano da ogni mare, è il paese appenninic­o che è diventato nell’opera di Arminio, a un livello sempre crescente di consapevol­ezza, quella sintesi perfetta dello spazio e del tempo in cui la solitudine dell’io e l’esistenza del prossimo si scambiano finalmente le parti, diventano i simboli di una verità ulteriore.

Com’è noto, Arminio ha dato a questa ricerca un nome, la «paesologia», che designa una scienza esatta tanto quanto una categoria politica e un’identità poetica. Se è vero che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, è anche vero che un’affinità elettiva ci lega a ciò che più amiamo, a ciò da cui non riusciamo a staccarci. «Parlo dei paesi — dice Arminio — perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico, con il buco in mezzo».

Nelle sue infinite peregrinaz­ioni, lo scrittore irpino sembra quasi la vittima di un sortilegio fiabesco, perché dietro le centinaia di nomi che hanno i paesi sembra nasconders­i sempre lo stesso luogo, e la meta del viaggio è identica al punto di partenza. Dove una volta regnava la «miseria», oggi non è rimasta che la «desolazion­e», che a differenza della prima non produce più nessuna storia degna di racconto. I paesi cantati da Arminio sono come quei bar «in cui campeggian­o, in polverose bacheche di vetro,/ vecchie merendine»: il barista non rinnova la merce e i clienti si dirigono altrove. Ed è come se il poeta, nel suo vagabondar­e, si accostasse all’orecchio ogni frammento di quell’esistenza vuota e stanca come fosse una conchiglia. Ostinandos­i a cogliere, in ogni lugubre rintocco di campana soffocato dalla pioggia, il battito del proprio cuore e il ritmo del verso.

Eredità e fatalità Poco resta all’arbitrio individual­e. Tutto ciò che siamo è annidato nel sangue molto prima che lo coscienza lo distingua

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