Corriere della Sera - La Lettura
Il cecchino dentro la testa prende la mira e non spara
Paesaggi interiori Franco Arminio percorre l’Appennino, dove la «desolazione» ha preso il posto della «miseria», e affronta stati d’animo e necessità che diventano strumenti di conoscenza e riserve di energia per comprendere il mondo
«Èil pensiero della fine/ che m’ispira./ Nella testa/ ho un cecchino/ che non spara,/ prende solo la mira». Raramente capita a uno scrittore l’occasione di formulare un autoritratto veritiero come questo di Franco Arminio. Gli basta una manciata di sillabe, connesse da un gioco sapiente di rime e assonanze, e un intero destino si staglia nettamente sul bianco della pagina. Come accadeva in certi indimenticabili epigrammi composti in vecchiaia da Giorgio Caproni.
«Sono nato nell’ansia e lì sono rimasto», confessa Franco Arminio. La lettura dello scrittore irpino mi ha fatto spesso pensare al protagonista di uno straordinario racconto di Henry James, La belva nella giungla, per il quale la durata stessa della vita equivale, senza intervalli significativi, all’attesa di una catastrofe. Con la differenza che quello di James finisce per essere un apologo sull’esistenza mancata, e solo quando è troppo tardi arriva la consapevolezza che le cose sarebbero potute andare in maniera diversa. La psico- logia di Arminio consiste soprattutto di eredità e fatalità, pochissimo concedendo all’arbitrio individuale e nulla all’eventualità di una guarigione. Tutto ciò che siamo è annidato nel sangue molto prima che la coscienza lo distingua e lo nomini. Il figlio si porta sulle spalle il «perenne sgomento» della madre, un’idea assolutamente provvisoria e minacciata della vita, «come se bastasse un cenno/ a sparpagliare nel nulla le membra».
Da sempre, qualunque sia il loro argomento immediato, la scrittura di Arminio ci racconta di come certe necessità, certi aspetti della conformazione interio- re, diventino strumenti di conoscenza, riserve di energia a disposizione di un processo di comprensione del mondo. Il sintomo nevrotico, pur restìo a ogni trasformazione, è in grado di comportarsi come un angelo, un mediatore: rende possibile uno scambio di messaggi tra il poeta e il mondo. Ovviamente, si tratta di un modo di conoscere radicalmente frammentario, si esprima in versi o in prosa. La misura breve è il respiro ideale di Arminio, così come il singolo giorno è l’unità di misura fondamentale del suo sentimento del tempo. Il «cecchino» annidato nella testa non permette orizzonti più ampi, bisogna arraffare alle cose quel tanto di saggezza che ci concedono in cambio dell’attenzione con cui siamo in grado di guardarle.
È questa la radice del su ostile, la scommessa sempre rinnovata di una necessità ingovernabile che si trasforma in libertà. E dunque, se Arminio non manca mai di informarci sul fatto che i suoi esercizi di coscienza manifestano una patologia, il male è pur sempre considerato come un modo di percepire le cose, e in ultima analisi come un’ars poetica. Vale per quello che mostra, non per quello che è. La malattia insomma trascende la psicologia, si sporge sul mondo, gli conferisce una speciale intensità che è la stessa dell’atto creativo, della metafora rivelatrice.
Le poesie e le prose brevi di Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere) sono una sintesi felicissima della scrittura di Franco Arminio, di quel suo singolarissimo e prezioso impasto di lirismo, memoria, senso esatto delle proporzioni umane. Nel corso del tempo, lo scrittore irpino ha allargato l’interstizio fra la psiche e il nulla collocando in quella terra di confine un intero paesaggio, che come tutte le autentiche creazioni dello spirito possiede in grado supremo i caratteri della realtà presente e quelli dell’immaginazione e del ricordo. Ventoso, spopolato, lontano da ogni mare, è il paese appenninico che è diventato nell’opera di Arminio, a un livello sempre crescente di consapevolezza, quella sintesi perfetta dello spazio e del tempo in cui la solitudine dell’io e l’esistenza del prossimo si scambiano finalmente le parti, diventano i simboli di una verità ulteriore.
Com’è noto, Arminio ha dato a questa ricerca un nome, la «paesologia», che designa una scienza esatta tanto quanto una categoria politica e un’identità poetica. Se è vero che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, è anche vero che un’affinità elettiva ci lega a ciò che più amiamo, a ciò da cui non riusciamo a staccarci. «Parlo dei paesi — dice Arminio — perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico, con il buco in mezzo».
Nelle sue infinite peregrinazioni, lo scrittore irpino sembra quasi la vittima di un sortilegio fiabesco, perché dietro le centinaia di nomi che hanno i paesi sembra nascondersi sempre lo stesso luogo, e la meta del viaggio è identica al punto di partenza. Dove una volta regnava la «miseria», oggi non è rimasta che la «desolazione», che a differenza della prima non produce più nessuna storia degna di racconto. I paesi cantati da Arminio sono come quei bar «in cui campeggiano, in polverose bacheche di vetro,/ vecchie merendine»: il barista non rinnova la merce e i clienti si dirigono altrove. Ed è come se il poeta, nel suo vagabondare, si accostasse all’orecchio ogni frammento di quell’esistenza vuota e stanca come fosse una conchiglia. Ostinandosi a cogliere, in ogni lugubre rintocco di campana soffocato dalla pioggia, il battito del proprio cuore e il ritmo del verso.
Eredità e fatalità Poco resta all’arbitrio individuale. Tutto ciò che siamo è annidato nel sangue molto prima che lo coscienza lo distingua