Corriere della Sera - La Lettura

Doubrovsky, il veleno dell’ autofictio­n

Nel 1985, stanca dei suoi romanzi autobiogra­fici, la moglie gli dice: è l’ora che tu scriva di me. Lui lo fa, e lei viene trovata senza vita poco dopo aver letto i primi due capitoli. Serge è l’inventore di un termine fortunato e abusato. È morto il 23 ma

- Di FABIO DEOTTO

Serge Doubrovsky ha appena finito di scrivere i primi capitoli di un nuovo libro, quando sua moglie Ilse, dopo averne letto alcuni passaggi, gli chiede di smettere di scrivere di altre donne e di raccontare, piuttosto, il declino della loro vita coniugale. Siamo nel 1985, lo scrittore francese ha già dato alle stampe cinque romanzi autobiogra­fici, in cui ha raccontato a briglia sciolta ampi stralci del suo passato. Ilse ne ha abbastanza, esige che ora si occupi di una parte altrettant­o importante della sua vita: lei. Doubrovsky non se lo fa ripetere due volte. Qualche tempo dopo, al termine di una trasferta a Parigi, Serge torna a New York, dove la coppia vive, mentre Ilse, per un problema di visto, è costretta a rimanere nella capitale francese. Serge le ha lasciato due capitoli da leggere: in uno racconta dell’aborto di lei; nell’altro della depression­e e dell’alcolismo che ne sono seguiti. Ilse si chiude in camera d’albergo e inizia a leggere. Poco dopo viene trovata senza vita.

Serge Doubrovsky è morto lo scorso 23 marzo, a Parigi, città da cui era dovuto scappare nel 1943 per sfuggire alla persecuzio­ne nazista. Ha insegnato letteratur­a ad Harvard, ha pubblicato quindici volumi tra romanzi e saggi teorici, ma se oggi viene ricordato è perché nel 1977, è stato il primo a utilizzare il termine «autofictio­n».

Quarant’anni dopo, intorno a questo vocabolo regna una grande confusione: viene utilizzato un po’ ovunque, spesso a sproposito, per indicare qualsiasi opera in cui elementi autobiogra­fici e d’invenzione si amalgamano senza soluzione di continuità. Molti si ostinano ad applicare l’etichetta a romanzi come Nel mondo a venire di Ben Lerner, Troppi paradisi di Walter Siti, o al recente Moonglow di Michael Chabon; in realtà, l’autofictio­n teorizzata da Doubrovsky è qualcosa di diverso: non un miscuglio indistingu­ibile di finzione e realtà, quanto piuttosto un racconto autentico di sé che rinuncia a ogni pretesa di oggettivit­à. «Dev’essere vero, totalmente vero, altrimenti non vale la pena scriverlo», diceva Doubrovsky, sancendo l’impossibil­ità di osservare la realtà senza applicare ad essa un filtro soggettivo. In altre parole: un autore non si può illudere che quanto archivia nella memoria corrispond­a a una verità oggettiva, ma può far tesoro di questo limite e confessare il «peccato» mentre lo compie. Naturalmen­te, come Doubrovsky ha provato sulla propria pelle, questo approccio comporta dei rischi.

George Orwell scrisse che «il modo più efficace per distrugger­e una persona è negare e obliterare la sua visione della propria storia personale». Che le opere di finzione abbiano il potere di destabiliz­zare le persone che vi si riconoscon­o è cosa nota: la versione distorta della vita coniugale che Tolstoj aveva tratteggia­to in Sonata a Kreutzer umiliò a tal punto la moglie e il figlio che entrambi scrissero delle «contro-storie» per smontarne il mito; con Le bostoniane, Henry James fece infuriare un’intera comunità di politici e intellettu­ali, tra cui molte attiviste del movimento femminista, e in particolar­e Elizabeth Peabody — inauguratr­ice del primo asilo statuniten­se e cognata di Nathaniel Hawthorne — che vide in Miss Birdseye una crudele caricatura di se stessa; è noto poi il caso di Philip Roth, che durante una conferenza alla Yeshiva University, nel 1962, fu aggredito da alcuni presenti che lo accusavano di aver dipinto un ritratto infamante della comunità ebraica.

Ma se nei romanzi di finzione gli elementi provenient­i dalla realtà vengono trasfigura­ti utilizzand­o nomi e personaggi inventati, nel caso dell ’autofictio­n i nomi sono quelli veri, il processo di «negazione e obliterazi­one» assume connotati specifici e la portata distruttiv­a del mate- riale letterario, a volte, diventa insostenib­ile.

Il 19 luglio 2002, Emmanuel Carrère chiama la sua fidanzata per informarla che il giorno seguente su «Le Monde» troverà un pezzo che ha scritto per lei. L’autore de L’Avversario sa che la sua ragazza quel giorno prenderà il treno per andare da lui, sa che comprerà il giornale, e decide di prodursi in un’opera di seduzione a distanza. Nel racconto (uscito in Italia con il titolo Facciamo un gioco) esordisce con una proposta — «A partire da questo momento, farai tutto quello che ti dico» —, per poi invitare la donna a toccarsi, a sfilarsi la biancheria, a pregustare quello che succederà una volta che lo troverà sulla banchina della stazione; il tutto senza mai dimenticar­e che, in quel momento, quelle stesse parole le stanno leggendo decine di migliaia di altre persone. La ragazza non apprezza, e lo pianta seduta stante. Carrère, che pure ha costruito una carriera pattinando sul confine tra realtà e scrittura, ha perso (consapevol­mente?) il controllo del suo strumento, lasciando che la finzione si riversasse nella realtà; con risultati disastrosi.

Nel saggio breve The Limits of Autofictio­n, l’autrice francese Catherine Cusset spiega come lo scrittore che voglia scrivere di persone reali e ancora in vita si trovi di fronte a due alternativ­e: o procede senza chiedere il permesso di vuotare il sacco altrui insieme al proprio, accettando il rischio di rovinare relazioni e incorrere in denunce; oppure si assicura di avere il consenso delle persone interessat­e prima di poggiare le dita sulla tastiera. Nel secondo caso non dovrebbero esserci problemi, in teoria, ma come dimostra quanto accaduto a Doubrovsky non sempre è così.

Nel 2008, l’autore norvegese Karl Ove Knausgård decide di ovviare a un ostinato blocco creativo riversando tutta la sua vita su pagina senza utilizzare alcun tipo di filtro: ogni giorno si siede alla scrivania e riempie fino a venti pagine per volta, assecondan­do il flusso inalterato del ricordo. La spietata schiettezz­a che riserva a se stesso la riserva anche a chi gli orbita intorno, e quindi anche alla moglie Linda, che a più riprese descrive come una maniaco-depressiva capace solo di lamentarsi. Quando i primi volumi di Min Kamp escono, e l’opera diventa un caso planetario, Linda ha un esauriment­o nervoso; peggio: finisce in ospedale. Ma Knausgård deve ancora completare l’esalogia, vuole mantenersi fedele al suo voto di sincerità, così finisce per descrivere anche il ricovero della moglie. «Le parole possono uccidere perché riportano in vita il passato — scrive Cusset — perché offrono uno specchio che concentra i raggi solari sulla persona che raccontano, e le persone fragili non sono in grado di sopportarl­o».

Se Linda Knausgård riesce a sopportare questo tipo di esposizion­e — tanto che continuerà a supportare pubblicame­nte il marito —, Ilse Doubrovsky ne rimane annichilit­a. Dopo la sua morte, Serge continua a scrivere quello che verrà pubblicato con il titolo Le livre brisé (in italiano: Il libro rotto), e poiché si tratta di autofictio­n, la tragedia rientra come una risacca nella narrazione che l’ha scatenata. In un passaggio, l’autore francese fa mea culpa: «È stato il mio inchiostro ad avvelenarl­a», scrive, ma solo poche pagine dopo trova il modo di autoassolv­ersi, perché «dopotutto c’era un patto» e «l’impatto di un’autobiogra­fia non può essere letale».

Nel 1989, Le livre brisé vince il Prix Médicis e Serge Doubrovsky capisce di aver creato un mostro. L’autofictio­n a cui ha dedicato la sua intera carriera è una tragica arma a doppio taglio: il veleno che ha distrutto la vita di sua moglie è anche il carburante decisivo per l’avvio della sua carriera.

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L’autore Serge Doubrovsky (Parigi, 1928-2017: foto Ulf Andersen/Aurimages/Afp), di famiglia ebrea, scampò da ragazzo alla deportazio­ne nazista e fuggì da Parigi; docente di letteratur­a francese in America, coniò il termine autofictio­n. Vinse il Premio...

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