Corriere della Sera - La Lettura
Zeus a Pompei: il mare globale
La Palestra Grande degli Scavi ospita materiali che documentano un incontro di civiltà: i rapporti tra mondo greco e area napoletana
Quando la migrazione non era un atto disperato e le barche dei migranti erano navi e non trappole e gli uomini trasportavano merci e non erano merce essi stessi, il Mediterraneo era il mare che univa i popoli, e quelli che lo solcavano erano avventurieri — intesi uomini d’avventura — e non sventurati. Oggi il Mediterraneo divide, inghiotte. Restituisce tragedie e nasconde i corpi di chi ne è vittima.
Eppure il mare è sempre uguale, il mare non cambia. Le rotte di oggi, quelle che da Tripoli, Zuara, Sabratha vanno verso Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle, oppure si fermano a Malta, incrociano quelle dei greci, percorse già nel VII secolo a.C., e degli etruschi. Dei calcidesi che si insediarono a Kyme e sconfissero gli etruschi nella seconda battaglia di Cuma per poi fondare Neapolis.
Le testimonianze materiali di quei popoli, di quelle culture e di quelle civiltà rivivono oggi in un luogo magico come la Palestra Grande degli Scavi di Pompei, nella mostra Pompei e i Greci, che attraverso i reperti recuperati nel corso dei secoli racconta il rapporto tra la città distrutta dal Vesuvio e la civiltà ellenica, accendendo un faro su quello che è stato da sempre il ruolo del Mediterraneo — in questo caso sul suo versante tirrenico, ma il discorso è analogo per quanto riguarda il lato ionico —: il mare della conoscenza tra Oriente e Occidente, dello scambio culturale tra popoli, delle opportunità di arricchimento attraverso il commercio.
Quanto è rimasto di tutto questo in ciò che oggi rappresenta quello stesso mare? Le rotte commerciali resistono perché, per quanta strada possa aver fatto il progresso tecnologico, ci sono e ci saranno sempre materie che non possono viaggiare in altro modo che sulle navi. Ma le merci, di qualunque peso e dimensione restano cose, oggetti, e la storia del Mediterraneo — quella antica come quella contemporanea — è invece soprattutto storia di uomini. Se ai tempi della battaglia di Cuma sulle coste di quello che ai giorni nostri è il golfo di Napoli si sentiva parlare la lingua dei greci, quella degli etruschi e quella delle popolazioni italiche, allo stesso modo negli ultimi vent’anni le città costiere del Sud Italia sono state le prime ad ascoltare voci che parlavano l’albanese, la lingua dei curdi, gli idiomi dell’Africa interna.
Come avviene da sempre, è dunque ancora attraverso il Mediterraneo che i popoli si incontrano, le culture si incrociano, le identità si confrontano. Quanto tutto questo rappresenti una opportunità di crescita anziché un terreno di scontro politico — prima solo in Italia, ora diffusamente in Europa — lo si comprende ascoltando le parole dell’antropologo Francesco Remotti, autore di un saggio in catalogo, quando dice che «gli “altri” sono altri non per una loro essenza, bensì in quanto hanno comportamenti, valori, costumi diversi dai nostri». Ma «come noi non siamo affatto identici a noi stessi, così gli altri non sono del tutto diversi da noi: come nella nostra somiglianza culturale c’è anche differenza, così nelle differenze che riscontriamo tra noi e gli altri c’è anche somiglianza».
Per Remotti «se le divisioni sono ostacoli e barriere, le somiglianze sono ponti percorribili, passaggi che rendono possibile la comunicazione». La questione centrale, secondo l’antropologo, è però l’identità, e «non è affatto escluso che a questi discorsi sull’identità corrispondano in effetti i muri fisici e mentali, politici, sociali e burocratici che da un capo all’altro in Europa e in Nord America vengono eretti».
Muri che ormai non risparmiano più il Mediterraneo. Tanto che solo pochi anni fa lo storico Angelo d’Orsi si chiedeva: «È ancora nostrum quel mare?», per rispondersi poi in sostanza di no, perché «l’Europa diventata fortezza sta guardando e considerando il mare culla delle civiltà, ormai soltanto come frontiera; e frontiera da rendere invalicabile».