Corriere della Sera - La Lettura
Irregolare è chi non sta al gioco
Villon, Rimbaud. E Penna
Che cosa significa essere un irregolare in poesia, vale a dire lì dove ogni cosa è anzitutto misura, tempo ritmato, regolarità? Anche il verso libero risulta sì privo di regole fisse e prestabilite, ma non certo privo di regole in assoluto. Anzi, proprio la necessità di giustificare la parola poetica attraverso la sua regolamentazione intrinseca, come i poeti sanno molto bene, costituisce il compito più arduo e insieme il raggiungimento davvero qualificante. Eppure è altrettanto certo che non esiste una poesia (e un poeta) che si rispetti, che non sia in qualche modo irregolare. La poesia, perfino quando strumentalmente se ne avvale, nasce contro la convenzionalità espressiva, la ripetizione meccanica, il discorso prevedibile e, appunto, la regolarità. Il rapporto, diciamo pure la contraddizione tra regola ed eccezione, che non è mai solo di ordine formale, rappresenta dunque un problema sempre vivo e aperto, perché riguarda la possibilità stessa del discorso poetico. Ogni poeta, pertanto, è chiamato a modo suo a risolverlo.
Chiarito questo, resta pur vero che nella tradizione della poesia alcuni poeti sono stati avvertiti come irregolari per antonomasia. Si possono definire anche in modi diversi: eslege, indisciplinati, ribelli, non omologabili o non catalogabili, incendiari, maledetti, borderline e tant’altro. Esistono poeti, come Eliot e Montale, ad esempio, che sembrano nati apposta per conquistare il centro del canone, o anche, forse meglio, per riconfigurarlo a partire dal proprio nome. Altri, invece, nascono per rimanere poi sempre e comunque in aura d’eccezionalità, di anomalia, di eccentricità. Nella loro vicenda di poesia, insomma, le forze centrifughe finiscono per prevalere su quelle centripete. Fanno parte della tradizione, eppure con la tradizione c’entrano più per contrasto o per diversità che per altro. Villon, forse anche il nostro Cavalcanti, poi Lautréamont e Rimbaud, ma anche Campana e, più vicino, i poeti della beat generation, sono stati recepiti in qualche modo come scrittori di questa natura. Ma irregolare, ad esempio, si potrebbe considerare anche Sandro Penna, che pure — a rimarcare come l’argomentazione tocchi un paradosso che si trova nelle cose — scriveva in una lingua semplice ed elegante, dotata di una specie di suo naturale classicismo.
In ogni caso, se i primi occupano il centro della scena poetica, i secondi stanno ai suoi margini e, anzi, sono tutti protesi a oltrepassarne i confini; se quelli stanno nella poesia o comunque nella letteratura come a casa propria, questi ci si trovano invece stretti, tant’è che vorrebbero rompere l’argine della parola, bucare la pagina e uscire nella vita.
Ecco, se si dovesse indicare una specie di denominatore comune ai cosiddetti irregolari, questo andrebbe probabilmente trovato non in una più o meno esplicita sovversione formale, bensì, più profondamente, nella messa in questione del rapporto obliquo o indiretto tra cose e parole, che è poi il patto stesso su cui si regge la letteratura (un patto dovuto anche se «iniquo», come lo ha definito Mario Luzi). Questi poeti, insomma, non stanno al gioco. Nei loro versi la vita batte così forte che il sentimento della sua priorità e dei suoi diritti finisce per ritorcersi contro la stessa poesia, con tutte le conseguenze del caso. Come cantarla, come celebrarla, infatti, se le parole possono nascere soltanto sulle ceneri della vita stessa? Nessuno quanto i poeti irregolari, si direbbe, ha avvertito con più forza i limiti della parola poetica. Nessuno ha pagato a prezzo più caro le contraddizioni insite nello scontro con la rappresentazione formale.
Il discorso contro la letteratura, se fatto appunto in termini di espressione poetica, è destinato comunque a essere sconfitto, anche se, va aggiunto, attraverso il bagliore di fiamme che a volte sembrano inestinguibili. Lo aveva compreso meglio di chiunque altro Rimbaud, che anche per il suo ripudio della letteratura di tutti gli irregolari è divenuto non a caso il padre elettivo. No, la poesia non può «cambiare la vita». Addio, dunque. Anzi, Adieu.