Corriere della Sera - La Lettura
Capinera, un canto libero
Mogol: firmo il primo melodramma moderno Lucio Battisti direbbe che è straordinario
«Questo è il primo melodramma moderno. Lo di co con umilt à e con convinzione». A 80 anni, Mogol ha dipinta negli occhi l’innocenza di un bambino. Per una volta le canzoni si fanno da parte. Ha messo pensieri e parole al servizio delle radici culturali più alte. Canticchia tutte la parti, sovrapponendo la sua voce un po’ stridula a quelle operistiche della registrazione. Cuore e poesia, Mogol ha scritto le liriche di La capinera, dal romanzo epistolare di Verga. Tutto parla di Catania in questa favola nera di suore e di sorellastre, perciò il Teatro Bellini si è fatto avanti per la messinscena nel 2018. C’è interesse anche dal Carlo Felice di Genova ma si capisce che il desiderio di colui che ha scritto alcune tra le più belle pagine della canzone italiana, dell’uomo che guidava come un pazzo, «a fari spenti nella notte», sia quello di entrare nei maggiori templi della lirica.
Giulio Rapetti Mogol (con decreto presidenziale all’anagrafe il nome d’arte è confluito in quello vero) chiede di essere ascoltato dalle Fondazioni liriche «senza pregiudizi». Arriva un punto della vita in cui il mondo pop, che ha avuto popolarità e denaro, vuole misurarsi con l’«altro» mondo, quello piccolo, di nicchia, nobile, socialmente solidissimo. È successo con Lucio Dalla che ha fatto sette regie d’opera e ha riscritto Tosca; è successo con Antonello Venditti e i suoi dischi sinfonici; con Franco Battiato e le sue opere, i recital in cui canta i Lieder di Brahms, i film su Hän- del e Beethoven. Uno dei pochi ai quali la forma-canzone sta bene è Francesco De Gregori. Mogol ha messo l’asticella in alto, è una sfida nuova. L’arrangiamento è sinfonico, le voci sono liriche, il linguaggio tonale; c’è il profumo dell’opera, un’orchestra di 74 elementi e 40 coristi; non c’è la struttura.
Le liriche sono di un Mogol davvero ispirato. «Sono andato nella bocca del leone — dice a “la Lettura” — facendo sentire la registrazione ai melomani del Regio di Parma, poi l’hanno sentita il regista Gabriele Muccino, i direttori Gustav Kuhn e Ion Marin… Tutti entusiasti». Ma non basta. E lo sa. La musica è di Gianni Bella, che al completamento dell’opera ebbe un ictus. Che lo si voglia o no, qui si nasconde il «pregiudizio». Gianni Bella alla Scala? Immaginatevi la faccia del sovrintendente Pereira…
E dall’inchiostro di questa domanda che per gli accademici è nero come una minaccia, nel suo borgo immerso nella campagna umbra, sgranando lo stupore Mogol comincia a raccontare. Parliamo nella Sala «Battisti» della tenuta denominata Cet, Centro Europeo di Toscolano. «In 25 anni, fra autori, compositori, interpreti, abbiamo avuto 2.500 diplomati. Da qui è uscita Arisa, per fare un nome».
«Quando Gianni Bella, col librettista Giuseppe Fulcheri, mi propose questo progetto, chiesi: qual è la tua cultura operistica? Nessuna. Allora non me la sento, risposi». Sei mesi dopo i due tornarono con la registrazione realizzata da Orchestra e Co-
Il celebre paroliere ha scritto i testi per un’opera composta da Gianni Bella tratta da un romanzo di Verga: «Non sono melodie classiche ma piaceranno»
ro del Teatro Regio di Parma. «L’ouverture, una meraviglia; gli arrangiamenti e le orchestrazioni di Geoff Westley, che Lucio Battisti adorava, una meraviglia. E le arie, travolgenti, ti arrivano al cuore». Un musical? «Nooo, un melodramma moderno come non se ne sono mai fatti». Cosa diranno i melomani? «Sono melodie che accetteranno, anche se non tipicamente operistiche».
Lui e l’opera, un rapporto mai nato. «Ricordo una Carmen da ragazzino, e poco altro, però la lirica è bellissima. Ho coniato un aforisma: la canzone ti può toccare nel profondo, l’opera ti investe». Sulla Capine
ra ha lavorato come un cronista della realtà. «Mi descrivevano le scene e componevo le liriche. I libretti d’opera sono aulici, arcaici. Ho usato il mio modo di esprimermi». Di Verga non ricordava nulla. La storia l’ha modificata: ci sono personaggi nuovi come il Colera (la morte) che nel 1850 funestò Catania. E poi in questa creazione c’è la purezza assoluta di Nina, la novizia che per l’epidemia va dai parenti il giorno prima che la sorellastra si sposi con Nino. Lui vede Maria vestita di bianco che corre nei prati, spaventata ma finalmente libera, l’incontro con la natura e la vita, un’esplosione di libertà, ed è la vita che sorprende, è l’ancella di Dio che vuole amare.
Poi trovi il senso dell’ignoto prima di lasciare il convento («oltre queste amate mura curiosità, ma mi sento un po’ insicura»), e il senso di colpa del padre di Maria, un uomo debole che l’aveva fatta rinchiudere dietro le grate del convento dopo essere ri- masto vedovo («cancellavo l’assenza con un no alla coscienza»). C’è la generosità di Maria verso il padre («ho recuperato un verbo: ruscellare, quando Maria parla dell’amore “che ruscella nel cuore, tu eri un padre dolce ma adesso tu sei il mio papà”»). C’è la mancanza di pietà (la matrigna: «Tanta felicità è pericolosa, Maria ha già un padre, suo padre è Dio»; e la sorellastra Giuditta: «Povera sorella, vestita con la tonaca da suora eppure è così bella»).
Lei, Mogol, in chi si riconosce? «Nella figura del padre che ha fatto torto alla figlia». In tutta la sua arte c’è un pezzo di sé: «Il mio passato è racchiuso nelle mie canzoni. Scriverò un libro per raccontare che cosa ci sia della mia vita in ogni canzone. Ma la musica occupa il 5 per cento della mia vita, forse anche meno».
Tutto accade nel suo fortino umbro, dove con sua moglie Daniela si occupa di volontariato e di autismo, di ambiente e di medicina. La giornata è mite, la primavera si risveglia, c’è la tentazione di rincorrere con lo sguardo le colline in fiore, perché la presenza di Lucio Battisti c’è, si avverte. La complicità, l’alchimia, l’amicizia, le incomprensioni, la separazione artistica. Mogol ne parla con affetto: «Era un uomo di una cultura spaventosa, oggettivamente critico e autocritico. Mi diceva sempre che gli piacevano di più le critiche dei complimenti. Era un uomo duro, eh». Che cosa avrebbe detto Lucio della sua opera? «Non poteva che dirmi: straordinaria». Al Cet oggi si aspetta un centinaio di poeti romeni riuniti in convegno. Negli spazi aperti del borgo circondato dai cavalli (la sua preferita è Serenella), arrivano in sottofondo le canzoni
Mina, Celentano, Battisti, impreziosite dalle sue parole. «Non posso intaccare la mia autostima, tuttavia non mi ritengo il vero autore, quando risento le mie canzoni penso di essere stato un canale sensibile di ricezione. Mi spiego con un aforisma: l’intenzione è il seme; la pianta è il regalo del destino. O di Dio». Lei è credente? «Assolutamente sì».
E racconta un episodio da brivido. Con una premessa: «Non ho mai parlato in vita mia con una medium». Nel 1999 la sua segretaria ricevette la telefonata di una medium, disse di avere avuto un incontro con Lucio Battisti. Lucio chiedeva di scrivere una canzone sull’arcobaleno. «Non è lei che la dedica a Lucio, è Lucio che la dedica a lei», concluse la medium. Mogol fece rispondere in malo modo. «Ma pochi giorni dopo la sorella della mia fidanzata dell’epoca mi diede la copertina di un mensile: c’era Lucio sulla spiaggia con un arcobaleno. Mi sembrava fosse frutto di un sogno, l’arcobaleno come ponte tra noi e l’aldilà. Negli stessi giorni incontrai Gianni Bella e Celentano, mi proposero una canzone che avesse il senso dell’aldilà, la musica era già pronta. In automobile, in 15 minuti, sulla Milano-Lodi scrissi: “L’Arcobaleno è il mio messaggio d’amore, può darsi un giorno ti riuscirò a toccare…”. Era una giornata piovigginosa, ai due lati di una strada di campagna apparvero due arcobaleni, che poi si riflessero sul cofano dell’auto. Non è finita. Tre anni fa mio figlio Francesco in macchina mi fece sentire le canzoni di Mango, che trovo straordinarie. Era una giornata di sole. Inspiegabilmente spuntò l’arcobaleno. Quel giorno stesso, Mango morì. Ho tratto la conclusione che nella morte viviamo in un’altra dimensione e abbiamo la possibilità, molto complessa, di comunicare in casi particolari, se il desiderio è così forte».
«Imprevedibile è il destino,/ fiumi d’acqua già al mattino,/ d’improvviso poi il sereno:/ l’arcobaleno»: è un passaggio della sua Capinera. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.