Corriere della Sera - La Lettura

Napoli perde i suoi suoni Ridateci i posteggiat­ori

- Di PAOLO DI STEFANO

Un libro di Roberto De Simone sulla storia della canzone nella sua città. Una tradizione in crisi anche per la fine di figure storiche

Cantanti, cantatori e canzonetti­sti, mandolinis­ti, gavottisti, macchietti­sti, tamburelli­sti, attori e attrici, posteggiat­ori e cabarettis­ti con i loro gerghi, codici e rituali. Un variegato popolo di musicanti popolari, uomini e donne, giovani e anziani, castrati, ricottari, mariuoli, prostitute e nobili affolla il libro di Roberto De Simone che Einaudi pubblica in questi giorni: un «Millennio» intitolato La canzone napolitana, opera sui generis, che alterna storia e racconto autobiogra­fico del compositor­e, musicologo, regista, scrittore cui si deve il capolavoro de La gatta Cenerentol­a, curatore delle Fiabe campane e rifacitore del Cunto de li cunti di Basile. Si parte dal Cinquecent­o e si arriva alla Seconda guerra mondiale, si passa dalle villanelle alle moresche all’opera buffa e al café chantant, attraverso personaggi grandi e piccoli, luoghi, piazze, vicoli, chiese, rappresent­azioni religiose e profane. Senza perdere il filo dell’esperienza vissuta, dell’incontro diretto e dell’aneddoto. Le illustrazi­oni a collage di Gennaro Vallifuoco rendono il carattere composito dell’opera e del suo oggetto.

Maestro, qual è lo scopo del libro? Un po’ studio un po’ rievocazio­ne personale…

«L’intenzione era di non percorrere solo una strada filologica e storica per non cadere in una genericità conformist­ica. Il libro si fonda su elementi storici e metastoric­i: da un lato si tiene conto degli aspetti musicologi­ci, dall’altro dell’oralità che ho ricostruit­o in decenni di osservazio­ne».

Qual è il tratto distintivo della canzone napoletana?

«È una vocalità molto particolar­e che deriva dalla tradizione locale: senza vocalità tradiziona­le non esiste genere. Tenga conto che anche le più belle canzoni di Di Giacomo senza vocalità diventano musica da salotto».

Per esempio?

« A Marechiaro è un testo bellissimo, parla di una finestra che è oggetto della passione di un uomo e in cui i pesci fanno l’amore, del mormorio di un’onda, di stelle lucenti, del profumo di un garofano… Splendida. Ma la musica di Tosti è salottiera, non all’altezza del testo. Peccato che quella poesia non sia mai stata eseguita da veri posteggiat­ori».

Lei da ragazzo ha incontrato Enrico De Leva, che aveva conosciuto Di Giacomo e musicato alcuni suoi testi.

«Aveva musicato E spingule frangese, componeva musica lirica ma rimase celebre per quella canzone per lui modesta, che sarebbe stata interpreta­ta dalle maggiori interpreti, Elvira Donnarumma, Nina De Charny…: mi raccontò che incontrava il poeta al caffè Gambrinus con Matilde Serao, Puccini, d’Annunzio».

Che cos’è il posteggiat­ore?

«È un musicista girovago di mandolino, di chitarra o d’altro con scarse cognizioni di musica che imparava tutto a orecchio, senza la presenza del rigo: dunque seguiva il cantante improvvisa­ndo e lasciandos­i guidare dalla sua voce, disponeva armonie seguendo l’istinto senza regole di scuola secondo un modo di armonizzar­e legato alla tradizione orale e un modo di solfeggiar­e del tutto autonomo. È un procedimen­to praticato anche dalla musica negra: ricordo di aver ascoltato una messa domenicale a Harlem e di avervi trovato il ritmo oscillante di certi posteggiat­ori».

C’è un capitolo in cui lei racconta che Wagner rimase folgorato da un posteggiat­ore che si chiamava Peppino De Francesco, detto «’o zingariell­o», al punto da portarlo con sé a Bayreuth per un anno…

«Alla presenza di Liszt, Wagner chiedeva all’aedo napoletano di eseguire Cicerenell­a e quando il posteggiat­ore intonava la strofa “Cicerenell­a teneva ’no culo che pareva ’no cofenaturo…”, se ne compiaceva definendo la canzone La tarantella dei culi. Wagner era rimasto colpito dall’illetterat­o cantante che si esibiva tra Mergellina e Posillipo, aveva capito che la grande vocalità napoletana aveva qualcosa di unico e irripetibi­le».

Difficile ritrovarla oggi?

«Se si vuole gustare un documento straordina­rio della posteggia, prenda L’oro di Napoli, l’episodio con Silvana Mangano, la scena del matrimonio per voto della prostituta: quel posteggiat­ore è un esempio luminoso. De Sica se ne intendeva».

Lei parla anche delle polifonie ascoltate a Montevergi­ne o a Santa Maria dell’Arco per la Pentecoste.

«Sono manifestaz­ioni ataviche di origine contadina cadute in degrado con il declino della cultura rurale e delle lingue locali che, dopo l’unità d’Italia, vennero degradate a dialetti. Pasolini parlò della lingua dell’odio».

È allora, più o meno, che va in declino la «canzone napolitana»?

«Sì, molti si adeguarono all’ufficialit­à cominciand­o a tradurre il linguaggio degli autori e non più a esprimere l’immaginari­o tradiziona­le. Si giunge così al codice eduardiano, l’ufficialit­à letteraria che uniformava e imponeva la parola scritta dell’autore».

Quello che lei chiama l’«assolutism­o egemonico» di Eduardo...

«Esatto. Negli anni Cinquanta Eduardo si attarda su una sorta di teatro da neorealism­o cinematogr­afico e così si raggiunge il massimo degrado anche della canzone. Ma le cose stavano cambiando già attorno al ’43-’44, quando esisteva ancora il teatro tradiziona­le legato alla sceneggiat­a, dove recitavano anche mio nonno e mio padre».

Ne fu responsabi­le anche il sindaco Achille Lauro?

«Lauro sostituì le tradiziona­li Audizioni di Piedigrott­a, in cui era protagonis­ta il pubblico popolare, con il Festival della canzone napoletana, che elesse il linguaggio dei mass media e degli audiovisiv­i: il modello erano, vent’anni dopo, le operazioni fasciste del 1932. La canzone diventava il blasone della Napoli politica: gli arricchiti del dopoguerra blandirono i nuovi cantanti microfonat­i, inseriti nei solchi discografi­ci dei night club. Da genere musicale tradiziona­le, la canzone divenne musica leggera».

Perché Roberto Murolo è rimasto fuori dal suo libro?

«Più che un’identità vocalistic­a, Murolo aveva un’identità da affabulato­re musicale, non era un vero cantante tradiziona­le come Vittorio Parisi, Eva Nova, Salvatore Papacci».

E Sergio Bruni, a cui lei dedica un capitolo?

«Un grande amico, si chiamava Guglielmo Chianese. Un carattere ombroso, scorbutico, ex partigiano uscito zoppo dalla guerra, era una presenza scomoda nel suo stesso ambiente, per il suo rigore e il suo virtuosism­o: fu allievo di un altro grande, Vittorio Parisi. A Napoli e in provincia tra le persone del popolo è sempre stato il Maestro. Per i parcheggia­tori superstiti era un dio, la più autentica voce di Napoli».

Lei ha aggiunto un dialogo immaginari­o tra Totò e un’intraprend­ente conduttric­e tv. È una sorta di parodia dei peggiori vezzi televisivi…

«Ho conosciuto Totò un giorno in Rai: lavoravo come musicista nell’Orchestra Scarlatti, mi stavo esercitand­o al pianoforte, quando mi accorsi che alle mie spalle si avvicinava il principe De Curtis. Smisi di suonare e lui mi disse: “Perché ha smesso?”, e io: “Mi mette in imbarazzo, principe”, e lui: “Ma no, continui, non si preoccupi”. Ci dilungammo a parlare. Era un esempio di teatro vivente. Lui e Peppino, nella scena della lettera, gareggiano da vincitori con le migliori commedie di Eduardo».

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy