Corriere della Sera - La Lettura
Addio ospitalità, vince il respingimento
Xenìa. Con questo termine gli antichi Greci designavano quel complesso di norme consuetudinarie e di regole non scritte riassumibili nel termine «ospitalità». Per molti secoli, fra Omero e Aristotele e oltre, essere «ostili allo straniero» ( echtroxenos) è considerato un «nefando, innominabile crimine» (Euripide, Ecuba). Più in generale, le vicende di entrambi i poemi omerici sono profondamente intrecciate con il tema dell’ospitalità, che in essi rappresenta una delle relazioni cruciali sul piano simbolico. La guerra di Troia ha origine e pretesto in un delitto di lesa ospitalità: Paride rapisce Elena tradendo la fiducia di Menelao. Ma è soprattutto nell’Odissea che le cerimonie dell’ospitalità fanno da contrappunto alle peregrinazioni di Ulisse. Gli episodi che vedono come protagonisti Nausicaa, Nestore, Alcinoo e i Ciclopi confermano un dato di fondo: l’ospite deve essere accolto, sfamato e ristorato, senza indagare in alcun modo sulla sua identità. Solo successivamente si penserà a interrogarlo sul suo nome e le ragioni della sua venuta. L’ospitalità, nella sua prima fase, è dunque accordata senza nessuna condizione. Se sia pirata o brigante, ci si difenderà dallo straniero solo dopo averlo accolto.
Ma gli esempi — numerosissimi — si potrebbero moltiplicare, attingendo a testi diversi, dai lirici agli storici, dai filosofi ai tragici. La xenìa è la relazione più profonda e più sacra nella quale possano stare due abitanti di questo mondo. Il dare e il ricevere l’ospitalità impone obblighi di cura e di protezione, la cui inviolabilità è fondamentale per tutte le relazioni interpersonali.
Difficile — anzi, impossibile — ritrovare l’eco di questa civilissima attitudine, compendiata nel termine «ospitalità», nella società attuale. A quella onnilaterale e incondizionata disposizione all’accoglienza dell’ospite, invalsa nella cultura greco-latina, si è sostituita oggi una parola d’ordine di segno opposto: respingimento. Forse perfino peggiore, perché ipocrita e razionalmente del tutto immotivata, l’ormai radicata tendenza a distinguere fra profughi e migranti economici, accogliendo gli uni e respingendo gli altri. Come se la prospettiva di morire di fame fosse meno meritevole di soccorso, rispetto al pericolo di morire sotto le bombe. Come se il migrante «economico» attraversasse il Mediterraneo, o percorresse a piedi la penisola balcanica, sospinto dalla curiosità del turista, e perciò non fosse degno di essere accolto.
Al giorno d’oggi, purtroppo, l’ospitalità ha totalmente smarrito il significato di una relazione bilaterale obbligante e ineludibile, per diventare una sorta di privilegio che può essere discrezionalmente concesso o negato. A giudicare con la dovuta severità la graduale estinzione del termine stesso che per secoli ha designato le pratiche dell’accoglienza è stato un grande pensatore come Jacques Derrida. Espulso adolescente dalle scuole algerine, perché ebreo; successivamente discriminato in Francia perché algerino, il filosofo francofono compendiava la sua condizione di doppia esclusione con una battuta fulminante: «Ho una sola lingua, e non è la mia». Da lui possiamo apprendere una distinzione che dovrebbe essere alla base di ogni attuale ragionamento su ciò che resta della parola ospitalità. «L’ospitalità possiede, e deve conservare, un carattere “incondizionale”, mentre l’invenzione politica avrebbe il compito di trovare la legislazione migliore, o se non altro la meno peggiore».