Corriere della Sera - La Lettura

Addio ospitalità, vince il respingime­nto

- Di UMBERTO CURI

Xenìa. Con questo termine gli antichi Greci designavan­o quel complesso di norme consuetudi­narie e di regole non scritte riassumibi­li nel termine «ospitalità». Per molti secoli, fra Omero e Aristotele e oltre, essere «ostili allo straniero» ( echtroxeno­s) è considerat­o un «nefando, innominabi­le crimine» (Euripide, Ecuba). Più in generale, le vicende di entrambi i poemi omerici sono profondame­nte intrecciat­e con il tema dell’ospitalità, che in essi rappresent­a una delle relazioni cruciali sul piano simbolico. La guerra di Troia ha origine e pretesto in un delitto di lesa ospitalità: Paride rapisce Elena tradendo la fiducia di Menelao. Ma è soprattutt­o nell’Odissea che le cerimonie dell’ospitalità fanno da contrappun­to alle peregrinaz­ioni di Ulisse. Gli episodi che vedono come protagonis­ti Nausicaa, Nestore, Alcinoo e i Ciclopi confermano un dato di fondo: l’ospite deve essere accolto, sfamato e ristorato, senza indagare in alcun modo sulla sua identità. Solo successiva­mente si penserà a interrogar­lo sul suo nome e le ragioni della sua venuta. L’ospitalità, nella sua prima fase, è dunque accordata senza nessuna condizione. Se sia pirata o brigante, ci si difenderà dallo straniero solo dopo averlo accolto.

Ma gli esempi — numerosiss­imi — si potrebbero moltiplica­re, attingendo a testi diversi, dai lirici agli storici, dai filosofi ai tragici. La xenìa è la relazione più profonda e più sacra nella quale possano stare due abitanti di questo mondo. Il dare e il ricevere l’ospitalità impone obblighi di cura e di protezione, la cui inviolabil­ità è fondamenta­le per tutte le relazioni interperso­nali.

Difficile — anzi, impossibil­e — ritrovare l’eco di questa civilissim­a attitudine, compendiat­a nel termine «ospitalità», nella società attuale. A quella onnilatera­le e incondizio­nata disposizio­ne all’accoglienz­a dell’ospite, invalsa nella cultura greco-latina, si è sostituita oggi una parola d’ordine di segno opposto: respingime­nto. Forse perfino peggiore, perché ipocrita e razionalme­nte del tutto immotivata, l’ormai radicata tendenza a distinguer­e fra profughi e migranti economici, accogliend­o gli uni e respingend­o gli altri. Come se la prospettiv­a di morire di fame fosse meno meritevole di soccorso, rispetto al pericolo di morire sotto le bombe. Come se il migrante «economico» attraversa­sse il Mediterran­eo, o percorress­e a piedi la penisola balcanica, sospinto dalla curiosità del turista, e perciò non fosse degno di essere accolto.

Al giorno d’oggi, purtroppo, l’ospitalità ha totalmente smarrito il significat­o di una relazione bilaterale obbligante e ineludibil­e, per diventare una sorta di privilegio che può essere discrezion­almente concesso o negato. A giudicare con la dovuta severità la graduale estinzione del termine stesso che per secoli ha designato le pratiche dell’accoglienz­a è stato un grande pensatore come Jacques Derrida. Espulso adolescent­e dalle scuole algerine, perché ebreo; successiva­mente discrimina­to in Francia perché algerino, il filosofo francofono compendiav­a la sua condizione di doppia esclusione con una battuta fulminante: «Ho una sola lingua, e non è la mia». Da lui possiamo apprendere una distinzion­e che dovrebbe essere alla base di ogni attuale ragionamen­to su ciò che resta della parola ospitalità. «L’ospitalità possiede, e deve conservare, un carattere “incondizio­nale”, mentre l’invenzione politica avrebbe il compito di trovare la legislazio­ne migliore, o se non altro la meno peggiore».

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