Corriere della Sera - La Lettura
Ha l’acqua alla gola la gente di Kiribati
La Repubblica di Kiribati, indipendente dal 1979, comprende circa trenta isole abitate da poco più di centomila persone. Divisa in tre arcipelaghi (Gilbert, Fenice, Sporadi) in pieno Oceano Pacifico, Kiribati è composta quasi interamente da atolli che si elevano a pochi metri sul livello del mare. Nel luglio 2014, l’allora presidente della Repubblica Anote Tong annunciò l’acquisto di un terreno sull’isola di Vanua Levu (Figi) per trasferire, eventualmente, tutta la popolazione nel caso piuttosto probabile che nell’immediato futuro il livello degli oceani continui a crescere. Per gli atolli di Kiribati bastano alcune decine di centimetri perché le terre fertili siano invase dalle acque salate e impediscano alla popolazione di praticare l’orticoltura (nella foto Reuters due abitanti) da cui dipende la sua sussistenza. Come ha mostrato Jared Diamond nel libro Collasso (Einaudi), gli ecosistemi delle isole polinesiane sono molto fragili: un eccessivo consumo del suolo e politiche ambientali dissennate, come quelle che portarono al disboscamento dell’intera isola di Pasqua, possono determinare la crisi o la fine delle culture locali. Il trasferimento degli abitanti di Kiribati a Figi scardinerebbe il legame con la terra, a cui sono strettamente connesse le istituzioni politiche tradizionali, così come l’organizzazione dei gruppi di parentela.
Supponiamo (augurandoci che non sia così) che il livello delle acque continui a crescere e che tutta la popolazione sia costretta a trasferirsi: si potrà parlare allora di estinzione del popolo di Kiribati? Quando è riferita al- le società umane, la nozione di «estinzione» esprime insieme troppo e troppo poco. In teoria, potrebbe non esserci una sola vittima con la crescita del livello del mare. Inoltre, si può pensare che la gente di Kiribati porti con sé parte della propria cultura anche a Figi. Le condizioni ambientali e sociali in cui si troverà a vivere trasformeranno profondamente la cultura di Kiribati: alcuni suoi aspetti spariranno del tutto, non sappiamo se la lingua gilbertese continuerà a essere riprodotta. La nozione di «estinzione» applicata a questo caso appare però eccessiva, perché non tiene conto delle capacità di resistenza, resilienza e ricostruzione che hanno le culture umane, anche in situazioni drammatiche come quella che potrebbe prodursi a Kiribati.
Da un altro punto di vista, l’idea di «estinzione» appare limitativa: evoca catastrofi imminenti, disastri ambientali, violenze che possono causare la morte di un intero popolo e tuttavia non dà molto conto di fenomeni apparentemente meno gravi. Molte lingue sono in pericolo a Papua Nuova Guinea, in Nuova Caledonia e a Vanuatu, perché i loro locutori sono ormai poche centinaia di persone. La morte dell’ultimo parlante di una lingua non è un fenomeno eclatante, eppure con lui può scomparire una preziosa e secolare visione del mondo.
Agli inizi della sua storia, l’antropologia culturale era definita una disciplina di «salvataggio»: si trattava di «salvare» con grande urgenza la conoscenza di popoli destinati a sparire. Un secolo (e qualche decennio) dopo, molti di essi sono ancora qui, dai polinesiani di Kiribati ai tahitiani che già Victor Segalen nel 1907 dipingeva come in via di estinzione ( Le isole dei senza memoria, Meltemi). Queste società sono più coriacee del previsto, perché capaci di rielaborare in modo creativo i prodotti della post-modernità. Tuttavia le violenze dell’essere umano e la caducità delle nostre vite minacciano costantemente le fragili costruzioni chiamate culture.
Modifiche del clima, conflitti armati, caccia alle risorse naturali, politiche invasive minacciano piccole comunità le cui culture rischiano di sparire. Abbiamo individuato alcuni esempi del genere nelle zone del mondo dove si conservano modi di vita tradizionali messi sotto scacco dal progredire della modernità