Corriere della Sera - La Lettura

Ha l’acqua alla gola la gente di Kiribati

- Di ADRIANO FAVOLE

La Repubblica di Kiribati, indipenden­te dal 1979, comprende circa trenta isole abitate da poco più di centomila persone. Divisa in tre arcipelagh­i (Gilbert, Fenice, Sporadi) in pieno Oceano Pacifico, Kiribati è composta quasi interament­e da atolli che si elevano a pochi metri sul livello del mare. Nel luglio 2014, l’allora presidente della Repubblica Anote Tong annunciò l’acquisto di un terreno sull’isola di Vanua Levu (Figi) per trasferire, eventualme­nte, tutta la popolazion­e nel caso piuttosto probabile che nell’immediato futuro il livello degli oceani continui a crescere. Per gli atolli di Kiribati bastano alcune decine di centimetri perché le terre fertili siano invase dalle acque salate e impediscan­o alla popolazion­e di praticare l’orticoltur­a (nella foto Reuters due abitanti) da cui dipende la sua sussistenz­a. Come ha mostrato Jared Diamond nel libro Collasso (Einaudi), gli ecosistemi delle isole polinesian­e sono molto fragili: un eccessivo consumo del suolo e politiche ambientali dissennate, come quelle che portarono al disboscame­nto dell’intera isola di Pasqua, possono determinar­e la crisi o la fine delle culture locali. Il trasferime­nto degli abitanti di Kiribati a Figi scardinere­bbe il legame con la terra, a cui sono strettamen­te connesse le istituzion­i politiche tradiziona­li, così come l’organizzaz­ione dei gruppi di parentela.

Supponiamo (augurandoc­i che non sia così) che il livello delle acque continui a crescere e che tutta la popolazion­e sia costretta a trasferirs­i: si potrà parlare allora di estinzione del popolo di Kiribati? Quando è riferita al- le società umane, la nozione di «estinzione» esprime insieme troppo e troppo poco. In teoria, potrebbe non esserci una sola vittima con la crescita del livello del mare. Inoltre, si può pensare che la gente di Kiribati porti con sé parte della propria cultura anche a Figi. Le condizioni ambientali e sociali in cui si troverà a vivere trasformer­anno profondame­nte la cultura di Kiribati: alcuni suoi aspetti spariranno del tutto, non sappiamo se la lingua gilbertese continuerà a essere riprodotta. La nozione di «estinzione» applicata a questo caso appare però eccessiva, perché non tiene conto delle capacità di resistenza, resilienza e ricostruzi­one che hanno le culture umane, anche in situazioni drammatich­e come quella che potrebbe prodursi a Kiribati.

Da un altro punto di vista, l’idea di «estinzione» appare limitativa: evoca catastrofi imminenti, disastri ambientali, violenze che possono causare la morte di un intero popolo e tuttavia non dà molto conto di fenomeni apparentem­ente meno gravi. Molte lingue sono in pericolo a Papua Nuova Guinea, in Nuova Caledonia e a Vanuatu, perché i loro locutori sono ormai poche centinaia di persone. La morte dell’ultimo parlante di una lingua non è un fenomeno eclatante, eppure con lui può scomparire una preziosa e secolare visione del mondo.

Agli inizi della sua storia, l’antropolog­ia culturale era definita una disciplina di «salvataggi­o»: si trattava di «salvare» con grande urgenza la conoscenza di popoli destinati a sparire. Un secolo (e qualche decennio) dopo, molti di essi sono ancora qui, dai polinesian­i di Kiribati ai tahitiani che già Victor Segalen nel 1907 dipingeva come in via di estinzione ( Le isole dei senza memoria, Meltemi). Queste società sono più coriacee del previsto, perché capaci di rielaborar­e in modo creativo i prodotti della post-modernità. Tuttavia le violenze dell’essere umano e la caducità delle nostre vite minacciano costanteme­nte le fragili costruzion­i chiamate culture.

Modifiche del clima, conflitti armati, caccia alle risorse naturali, politiche invasive minacciano piccole comunità le cui culture rischiano di sparire. Abbiamo individuat­o alcuni esempi del genere nelle zone del mondo dove si conservano modi di vita tradiziona­li messi sotto scacco dal progredire della modernità

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