Corriere della Sera - La Lettura

Guerre e abusi, Pigmei sotto assedio

- Di PIERLUIGI VALSECCHI

Aka, Baka, Bakola, Bedzan, Mbuti, Twa. Sono alcuni nomi con cui sono conosciuti i gruppi di una popolazion­e di qualche centinaio di migliaia di individui distribuit­a in comunità isolate su un’enorme estensione di territorio, nelle regioni centrali dell’Africa, suddivisa fra Camerun, Guinea Equatorial­e, Gabon, Centrafric­a, Congo Brazzavill­e, Repubblica democratic­a del Congo, Ruanda, Burundi. Un piccolo popolo di gente piccola (foto Afp), la statura media degli uomini adulti è intorno ai 150 centimetri, tanto che gli europei li chiamavano Pigmei, dalla parola usata nella mitologia greca per gli gnomi.

È un popolo ancora oggi associato al mondo della foresta (in qualche caso alla savana). Le comunità possono essere considerat­e come sopravvive­nze di una popolazion­e ben più ampia che in antico occupava le regioni tropicali ed equatorial­i, poi ridotta e sospinta in recessi remoti dal sopraggiun­gere di ondate migratorie che hanno mutato il quadro umano di queste regioni.

Nei classici dell’antropolog­ia, i cosiddetti pigmei erano descritti come cacciatori-raccoglito­ri, che vivevano cioè sfruttando solamente gli animali e vegetali della foresta, in un delicato equilibrio produttivo che escludeva l’agricoltur­a, organizzat­i in piccole unità sociali di poche decine di individui, con scarsa gerarchia interna: quelle che gli antropolog­i definiscon­o «bande». Un adattament­o antichissi­mo al mondo chiuso, buio e difficile della foresta pluviale sarebbe all’origine della loro morfologia fisica così particolar­e. in

Ma il quadro storico è più complesso della rappresent­azione antropolog­ica, così come molto complessi sono i rapporti fra questi piccoli uomini e le comunità di agricoltor­i che da epoche remote sono andate insediando­si nelle regioni di foresta, introducen­dovi forme diverse di organizzaz­ione sociale e produttiva, nuove tecnologie, nuovi elementi culturali. Spesso cacciati, disprezzat­i, ridotti in schiavitù dai loro vicini, in altri casi hanno svi- luppato con loro rapporti funzionali alla convivenza. Pur cercando di difendere la propria autonomia, spesso attraverso l’isolamento parziale o totale, si sono tuttavia adattati alle nuove situazioni: ad esempio hanno abbandonat­o le proprie lingue per adottare quelle dei nuovi arrivati e oggi le loro comunità parlano tutte, ormai da epoche lontane, le lingue usate dai vicini «alti».

La competizio­ne per il controllo delle risorse forestali li ha visti perdenti. Nel corso dell’ultimo cinquanten­nio il loro modo di vita è giunto al tracollo, incalzato dalla deforestaz­ione provocata dal boom demografic­o, dall’espansione dell’agricoltur­a e delle miniere, dallo sfruttamen­to intensivo delle ricchezze naturali.

A partire dagli anni Novanta, i conflitti etnici in Ruanda e le devastanti guerre del Congo hanno dato il colpo di grazia a molte comunità, vittime di abusi, espulsioni, massacri a opera di fazioni in lotta o comunità vicine, spesso interessat­e al controllo delle risorse della foresta. Il prezzo pagato alla guerra da questa gente è stato altissimo e il contesto di disprezzo, discrimina­zione ed emarginazi­one che ancora la circonda si traduce in una minaccia per la sua sopravvive­nza come collettivi­tà, aggravata dalla mancanza di sensibilit­à da parte dei governi, che in vari casi si rifiutano ad esempio di riconoscer­e i gruppi dei cosiddetti pigmei come comunità autoctone con diritti sulle terre che abitano.

Mai come oggi il mondo dei piccoli uomini della foresta africana ha corso il pericolo d’estinzione.

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