Corriere della Sera - La Lettura

Nuova energia per la città

Luoghi futuri Il Battiferro di Bologna, nato nel 1439 e diventato una centrale termoidroe­lettrica nel 1900, aspetta una destinazio­ne. Due neoarchite­tti hanno studiato la Tate Modern di Londra e la Montemarti­ni di Roma, poi hanno allargato l’orizzonte per

- Dal nostro inviato a Bologna CARLO VULPIO

Andrà a finire che anche quest’altro pezzo lo comprerann­o i cinesi? Non è detto, anzi forse proprio no, non per il momento almeno. Ma se anche andasse a finire così? Sempre meglio vivere con i cinesi che morire per mano dei connaziona­li. E se il rischio che corre la ex centrale termoidroe­lettrica di Bologna è questo, di crollare un po’ alla volta, di sbriciolar­si pian pianino, come dicono qui, allora è meglio che se ne impadronis­cano i cinesi della Bolognina, che almeno sapranno cosa farne della ex centrale di mattoni rossi abbandonat­a nel «loro» quartiere, la Chinatown di Bologna. Dove sono pochi quelli che ricordano «la svolta» del Pci — «il più grande partito comunista dell’Occidente» che nel 1989 qui diventò Pds — ma dove tutti ricorderan­no questo inizio di secolo per un’altra svolta, a opera di un altro Pci, il Partito cinese italiano, che si prepara a governare la Bolognina con i suoi ristoranti eleganti, i suoi negozi di tutti i tipi, i suoi condominii, le auto di grossa cilindrata guidate da perfetti occidental­i dagli occhi a mandorla, gli edifici dai quali pendono striscioni con la scritta bilingue «vendesi», prima in cinese e poi in italiano.

La ex centrale termoidroe­lettrica, chiamata del Battiferro per il rumore continuo della lavorazion­e dei metalli nell’officina che un paio di secoli fa vi era ospitata, cominciò a funzionare nel 1900 e subito diventò la seconda fabbrica di energia elettrica di Bologna, dopo le Officine del Gas. Ma è stata la prima a produrre elettricit­à sfruttando contempora­neamente il carbone e il salto d’acqua del canale navigabile Navile, sul quale oggi la centrale, la casa di manovra per l’apertura e chiusura della paratoie e l’alloggio del custode stanno lì come 120 anni fa, quasi che nel frattempo non fosse successo niente. Invece, assieme all’acqua che scorre nel canale (sempre meno, in verità, per ragioni poco chiare di scarichi inquinanti nel fiume Reno), tra queste costruzion­i sono scivolati via grandi storie e grandi personaggi. A cominciare da uno dei padri dell’architettu­ra, Jacopo Barozzi detto il Vignola. Fu lui, nel 1548, a completare il Battiferro, nato nel 1439 come edificio fluviale, la «cabina di regia» del canale Navile, la cui biforcazio­ne consentiva la navigazion­e nel primo ramo (il Canalazzo) e la regolazion­e del flusso delle acque nel secondo (il Canaletto).

Fino al 1794 il Battiferro fu un opificio dei frati Cappuccini e nell’Ottocento venne acquistato dal marchese Mazzacorat­i, che ne fece un mulino. Poi, arrivò una società di capitali, la Società dello Sviluppo, che puntò subito a produrre energia idroelettr­ica scavando un terzo canale che portasse acqua a una turbina, mettesse in moto gli alternator­i (erano tre, da 400 kilowatt ciascu- no) e restituiss­e l’acqua al canale. Era nato così il primo nucleo della centrale del Battiferro, quello «idro». Con il carbone arrivò anche il secondo nucleo, il «termo». Per completare l’opera però, l’acqua e il carbone dovettero incontrare la tecnologia ungherese (il materiale elettrico della Ganz), svizzera (la turbina idraulica della Escher Wyss), tedesca (le caldaie della Steinmülle­r) e italiana (le macchine motrici e i condensato­ri della Franco Tosi di Legnano).

Mezzo secolo di prosperità, poi la progressiv­a marginaliz­zazione, a causa dei sempre più numerosi laghi artificial­i per la produzione di energia elettrica realizzati sull’Appennino. Nel 1961, la centrale del Battiferro viene dismessa. Sopravvive­rà fino al 1980 come centro di addestrame­nto del personale Enel. Poi, l’Enel la vende al Comune e questo la affida all’Università, che avrebbe voluto destinarla a dipartimen­to per le Biotecnolo­gie, ma, accortasi di non avere soldi a sufficienz­a, la restituisc­e al Comune. Il quale non sa che farsene e la rimette in vendita, per 1,8 milioni di euro. Ma nessuno la compra e la centrale resta lì, chiusa, abbandonat­a e pericolant­e. Tanto che anche la ciminiera, alta 45 metri e a rischio di crollo, dev’essere abbattuta e viene ridotta a un moncone della stessa altezza dei tetti. Fino al giorno della resa, esattament­e un anno fa, quando l’intera area (80 mila metri quadrati) e la struttura (quasi altrettant­i, distribu-

iti sopra ed entro terra) vengono dichiarate inagibili.

Inagibilit­à però non significa morte. È vero, a guardarla dall’interno e a percorrerl­a da un angolo all’altro, e fin nel piano interrato, dove anche tra le rovine il mastodonti­co alternator­e non ha perso la sua predominan­za, la centrale del Battiferro sembra uno di quegli edifici di Aleppo spappolati dalle bombe. Però è una struttura ancora viva. È un ferito grave ma vivo. È sì uno dei tanti esempi di archeologi­a industrial­e — l’espression­e fu coniata circa cinquant’anni fa in Inghilterr­a, patria della rivoluzion­e industrial­e — ma è anche uno di quei manufatti che bisogna sapere riconoscer­e, come diceva Cesare Brandi, «nella loro duplice polarità, estetica e storica», per poterli reintegrar­e nel paesaggio e nella vita urbana senza scadere nella banalità.

Tra i primi a muoversi in questa direzione — mentre Regione e Comune, proprietar­i rispettiva­mente della casa del custode e della ex centrale, sembrano essersi rimessi alla clemenza della sorte — ci sono un giovane geografo con un master in Archeologi­a industrial­e, Jacopo Ibello, presidente dell’associazio­ne «Save Industrial Heritage» e animatore del gruppo Facebook «Salviamo la centrale», e Gabriele Bernardi, presidente dell’associazio­ne Vitruvio. Insieme con loro, visto che parlare del Battiferro significa parlare del Navile e del sistema di chiuse, canali e condutture per l’irrigazion­e e per l’energia, anche l’associazio­ne «Amici delle vie d’acqua e dei sotterrane­i di Bologna». Tutti vogliono la stessa cosa. Recuperare la ex centrale e sottrarla al non ineluttabi­le destino di vera e propria Terra di Nessuno, enclave in disfacimen­to in un’area della città in cui, a due passi dal Battiferro, si è saputo recuperare la ex fornace Galotti, ora sede del Museo del patrimonio industrial­e, e si è riusciti a far partire il nuovo polo universita­rio con le facoltà di Chimica e di Astronomia. L’associazio­ne Vitruvio, per esempio, vorrebbe installare una microturbi­na nel salto del Navile e così far tornare il Battiferro a produrre energia per alimentare l’illuminazi­one pubblica della rete di piste ciclabili, che a Bologna, beati loro, misura 120 chilometri. È un’idea, come quella di destinare una sala della ex centrale a palestra, dotata di attrezzatu­re e macchinari che trasformin­o in energia elettrica il sudore degli utenti.

La parola chiave del recupero del Battiferro però è, per tutti, coworking. Termine assai di moda, certo, ma anche pratica rivelatasi molto efficace, negli Stati Uniti e in Europa, per sfruttare al massimo gli stessi spazi e gli stessi servizi — pur facendo lavori diversi — senza precluders­i le relazioni umane, come per esempio accade con l’isolamento del telelavoro. Sono stati due neoarchite­tti del Politecnic­o di Milano, Marta Grisolia e Martina

Lorenzini — con la loro tesi di laurea del 2016, La centrale del coworking. Il Battiferro genera nuove energie

per Bologna —, a proporre l’unico progetto organico per far tornare a vivere la ex centrale di mattoni rossi.

Anche la centrale di Bologna, come la Tate Modern di Londra, la Montemarti­ni di Roma e diverse altre nel mondo, potrebbe trasformar­si in museo di se stessa. Ma accanto a questa destinazio­ne, sostengono Grisolia e Lorenzini, potrebbe averne anche altre, «per essere al servizio della città e delle persone che gravitano intorno alla centrale, cioè lavoratori e studenti, turisti e abitanti del quartiere». E poiché a Bologna i turisti non mancano, grazie anche ai 43 musei e a un centro storico tra i più antichi d’Europa, e considerat­o che con il nuovo polo universita­rio e la presenza del Cnr il numero di stud en t i , p r ofe ss o r i e ri c e r c a to r i a u mente r à fi n o a 5.500-6.000 persone, il progetto dei due neoarchite­tti ha cercato di rispondere alla domanda: cosa manca in prossimità della centrale? Ecco la risposta: «Mancano spazi di aggregazio­ne e di svago per il pubblico, e in vista dell’utenza futura del polo universita­rio è necessario creare nuovi ambienti multifunzi­onali». Cioè? Uno spazio coworking polifunzio­nale, appunto, con ristorante, bar, sale di lettura, auditorium, sala cineforum, palestra, aule per lo studio singolo e di gruppo, spazi espositivi, postazioni internet, officina e parcheggio per le biciclette. Un Battiferro ridisegnat­o, ma non snaturato né stravolto, che all’interno e all’esterno possa accogliere non soltanto studenti e professori, ma anche famiglie, bambini, anziani. Perché funzionale e perché bello. L’opposto delle orribili e invivibili case popolari costruite proprio di fronte alla ex centrale, loculi bollenti d’estate e umidi d’inverno, che la signora Gina R. ci ha fatto visitare, e che i cinesi della Bolognina, se il Battiferro dovessero acquistarl­o e ristruttur­arlo loro, «potrebbero anche far abbattere. Dando così un esempio virtuoso di ciò che viene definito “urbanistic­a contrattat­a”».

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