Corriere della Sera - La Lettura
L’identità? Un’illusione
François Jullien: basta con l’ossessione dell’essere Il mondo è in divenire, nasce e muore ogni giorno
François Jullien, riconosciuto internazionalmente come uno dei più importanti filosofi francesi, non si era finora occupato di questioni politiche. Lo fa nel suo ultimo saggio Il n’y a pas d’identité culturelle (L’Herne), con una tesi che appare molto provocatoria: non esiste un’identità culturale.
In realtà, il problema politico aveva già fatto capolino nel mio lavoro, come conseguenza di altre riflessioni però. I pensatori cinesi raccomandano di non prendere posizione. Ma non è proprio questa necessità — la necessità di prendere posizione, facendo giocare insieme il piano del reale e quello dell’ideale — ciò che caratterizza il politico? Preoccupandosi solo della politica, vale a dire della gestione dei rapporti di forza, la Cina si è rivelata incapace di pensare il politico, che è anche un pensiero dell’emancipazione, un tentativo di trovare alternative al dominio della forza. Così i letterati cinesi sono rimasti all’ombra del Principe, senza diventare «intellettuali». Con Il n’y a pas d’identité culturelle attacco invece la tentazione del ripiegamento identitario da cui sono minacciati i Paesi europei. Ponendo anche una questione di fondo: se non riusciamo a costruire l’Europa, non è anche perché abbiamo preteso di definire «un’identità» europea, cristiana o laica che fosse? In realtà è piuttosto lo «scarto», vale a dire la tensione tra le diverse aspirazioni che si confrontano le une con le altre, che ha fatto l’Europa.
Il tema dell’identità europea (e occidentale) conduce inevitabilmente al grande problema dell’Illuminismo e dell’universalismo: il tentativo di individuare delle categorie universali che possano valere per tutti gli uomini. Non sembra un progetto molto popolare, oggi. Ma possiamo farne a meno?
La nozione dell’universale è sempre necessaria, ma va ripensata. È un’idea superata se mira alla totalizzazione: quando si crede di possedere «tutto», non ci si preoccupa più di ciò che, a questo «tutto», potrebbe mancare. Perciò rivendico un’idea di universale ribelle, che sappia risvegliare il pensiero da questa illusione della totalità in cui rischia di assopirsi. Quello che ci serve, in altre parole, è un universale regolatore, così come lo aveva pensato Immanuel Kant, mai sazio, sempre capace di stimolare la ricerca. Oggi ne abbiamo bisogno per tenere aperta la possibilità di trovare ciò che è comune, resistendo alla tentazione di ripiegarci nel suo contrario, il comunitarismo.
Insieme a quella di «comune», un’altra categoria importante nel suo pensiero è quella di scarto, che lei contrappone alla «differenza».
La nozione di differenza va di pari passo con quella di identità, nella misura in cui tende a definire un’essenza. È un’esigenza legittima dal punto di vista conoscitivo, che però diventa pericolosa, mi sembra, se applicata alla dimensione culturale o politica. Aiuta a definire e dunque conoscere, ma lascia cadere l’altro, ciò da cui ci si distingue. Quella di scarto è invece una nozione che serve a esplorare e trovare, ma senza perdere di vista l’altro, perché non parte da niente di prestabilito. Invece di ordinare scompiglia, facendo affiorare un «tra», da cui partire in cerca di ciò che è comune davvero. Torniamo così all’universale.
Quella dell’universalismo è anche una questione filosofica: la filosofia greca nasce quando Parmenide e Platone cercano di mettere ordine nella realtà, individuando una serie di principi unitari (e dunque validi universalmente) che stanno alla base e regolano la molteplicità dei fenomeni. È un’idea che lei ha spesso contestato nei suoi scritti, contrapponendo all’«essere» la «vita».
È importante essere precisi su questo punto. In filosofia l’universale è il concetto, che è ciò che permette l’astrazione: uno strumento fondamentale, troppo importante perché se ne possa fare a meno. Ciò detto, a rendere interessante il pensiero cinese è proprio il modo in cui è riuscito a passare di lato a questa esigenza, aprendo altre strade, mantenendo il pensiero più vicino e aderente ai fenomeni. È qualcosa che si produce già a livello linguistico. Nel cinese manca la morfologia e non c’è quasi sintassi: è una lingua, insomma, che grazie alla correlazione non smette di far apparire la «co-erenza», l’implicazione reciproca tra le cose; e rinuncia invece alla ricerca unilaterale del signi-