Corriere della Sera - La Lettura

L’antiretori­ca è la retorica che va indietro

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

L’italiano privato diventa pubblico. E populista. E regressivo

Anche stavolta l’Italia è arrivata prima. Prima di Trump alla Casa Bianca, prima di Farage e della Brexit, prima di Marine Le Pen che mira all’Eliseo, c’è stato da noi Silvio Berlusconi. L’antesignan­o del Populismo 2.0, come ricorda Marco Revelli nel suo libro appena pubblicato da Einaudi (sarà presentato venerdì 21 alle 18.30 nella Sala Arial). Nel 1994, Berlusconi incarnava «con notevole anticipo sui tempi, ben due dei caratteri tipici che verranno assegnati al neopopulis­mo, per lo meno dal punto di vista formale: la piena personaliz­zazione e l’assoluta novità». Due aspetti che hanno contribuit­o in maniera decisiva alla sua vera rivoluzion­e, senz’altro quella più ricca di conseguenz­e (e di emuli): la rivoluzion­e del linguaggio. Un linguaggio televisivo, pubblicita­rio ma soprattutt­o — e qui sta la vera novità — un linguaggio privato: personale, colloquial­e, lontano dalla formalità delle istituzion­i e funzionale, invece, a una seducente messinscen­a del sé. Un’infinita e condivisa autonarraz­ione: Una storia italiana, come recitava il titolo dell’opuscolo recapitato nel 2001 a ogni famiglia. La politica ridotta a una questione privata.

Da quel momento il linguaggio politico ha conosciuto una rapida e radicale trasformaz­ione. Ma a essersi trasformat­o è — più in generale — tutto il linguaggio pubblico. Possiamo dire, anzi, che il linguaggio pubblico così come lo conoscevam­o fino alla fine del Novecento oggi non esiste più. Non sarà un caso che a Berlusconi («un Trump ante litteram ») siano dedicate diverse pagine del libro La fine del dibattito pubblico, scritto da Mark Thompson — già direttore della Bbc e ora presidente e chief executive del «New York Times» — tradotto da poco per i tipi di Feltrinell­i. Si tratta, in buona parte, di un segno dei tempi. Già dalla fine del secolo scorso, il trionfo dell’informalit­à ha portato con sé la dittatura del tu, la promozione sociale del turpiloqui­o e un diverso senso del pudore grammatica­le. Grazie al contributo dei telefonini, di internet e dei social network, il confine — anche linguistic­o — tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentend­o un continuo sconfiname­nto della prima sfera nella seconda. Il privato, insomma, è diventato pubblico. E anche politico, seppure non nel senso che la frase aveva negli anni Settanta.

Le lettere private dei più importanti personaggi dell’Ottocento erano punteggiat­e, quasi come le più recenti intercetta­zioni telefonich­e, di espression­i scurrili. L’esemplific­azione potrebbe andare da scrittori come Leopardi («la vera letteratur­a, di qualunque genere sia, non vale un cazzo con gli stranieri») o Monti o Carducci, fino a musicisti come Bellini e Rossini, a scultori come Canova, e appunto a politici come Francesco Crispi, per quattro volte presidente del Consiglio («bisogna che io pianga la mia coglioneri­a»). La differenza è che nessuno di loro si sarebbe sognato di usare parolacce in una situazione pubblica: in una conferenza, in un comizio o — più tardi — parlando alla radio o in television­e. E men che meno in Parlamento.

Il mito della disinterme­diazione ha portato con sé il rifiuto di ruoli e competenze istituzion­ali. Ha fatto credere che chiarezza e trasparenz­a si dovessero tradurre in un drastico abbassamen­to dei registri espressivi. Ha alimentato l’equivoco per cui qualsiasi ricorso a un linguaggio curato e preciso — a termini tecnici, ad argomentaz­ioni più complesse — viene ricondotto alla dispotica tirannia di una «casta». Così tutto si riduce in parole povere.

In questo habitat prospera l’italiano populista, con la sua popolarità artificial­e, ostentata, orgogliosa­mente becera. «Se c’è una cosa che non sopporto è la retorica. A me interessa solo quel che va fatto», amava dire Berlusconi. In realtà, alla vecchia retorica se n’è sempliceme­nte sostituita un’altra. Una retorica che non ha più per strumenti le clausole bilanciate, i parallelis­mi sintattici, le citazioni classiche. Ma punta tutto sugli anacoluti, sull’inglese maccheroni­co, sul turpiloqui­o, sui congiuntiv­i sbagliati: sul grammatica­lmente (e politicame­nte) scorretto. Una retorica dell’antiretori­ca che domina la politica spacciando­si per antipoliti­ca. Una retorica etimologic­amente idiota, se è vero che idiotes indicava in greco il privato cittadino disinteres­sato alla vita pubblica.

Nell’era post-ideologica a imperversa­re è un pensiero pre-politico. E la lingua che lo veicola, più che una neolingua, è una veteroling­ua: rozza, semplicist­ica, aggressiva. Una lingua che — invece di mirare al progresso — vorrebbe farci regredire, riportando­ci agli istinti e alle pulsioni primarie. Indietro, o popolo!

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