Corriere della Sera - La Lettura
Omicidio come un videogioco? Recuperiamo la responsabilità
Idieci comandamenti sono stati rivolti agli individui, per orientare in modo rigido i loro comportamenti. Anche il quinto «non uccidere», forse l’unico considerato ancora oggi inviolabile dal senso comune, si è sempre riferito agli atti dei singoli individui, non a quelli di gruppi, comunità, governi, Stati, Chiese e, ovviamente, eserciti. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vi fu un tentativo di regolamen- ne classificatoria del tipo di uccisioni, sia sul terreno individuale (femminicidio, omicidio stradale) che su quello collettivo (genocidio, politicidio, ecocidio, pianetocidio), che si trasforma spesso, al di là della necessaria articolazione giuridica nel punire gli omicidi, in una sorta di gerarchia morale tra uccisioni più malvagie e peggiori di altre?
La progressiva «penalizzazione» dei comportamenti individuali e collettivi, sempre più spesso sottoposti alla legge penale con nuove norme o con l’articolazione e ristrutturazione di quelle già esistenti, risponde da una parte a una visione complessa della società e al tentativo di controllarne tutti gli aspetti: ma finisce anche per favorire una cessione di responsabilità — sul terreno della morale individuale, dell’educazione, dell’etica pubblica — che viene demandata per incapacità politica al settore giudiziario.
Sembra che si sia ormai perduta, o si sia comunque incrinata, la forza morale deterrente che hanno svolto, sulla scorta degli antichi e riconosciuti comandamenti, le Chiese, gli Stati, le ideologie. L’impressione odierna è che, in una società sempre più interconnessa e ipercomunicativa, siano sempre meno coloro che trasgrediscono l’obbligo di «non uccidere», proprio perché non lo sentono più come un divieto insormontabile, innanzitutto per la propria coscienza; ma forse, se diamo retta alle statistiche, può essere vero il contrario.