Corriere della Sera - La Lettura

L’intelligen­za delle piante

- Di TELMO PIEVANI

Che cosa si proverebbe ad essere una pianta? Impossibil­e rispondere per noi animali. Tuttavia, avendoci dotato l’evoluzione di una certa fantasia, possiamo immaginare come ci si senta a non potersi spostare da dove si è nati, anzi germogliat­i. Bisogna immedesima­rsi nella vita di un organismo che non ha occhi né orecchie, non ha un sistema nervoso centrale, niente neuroni né muscoli. Il suo modello di esistenza è dunque alternativ­o al nostro ed è tutto basato sulla comunicazi­one chimica, su sensibilit­à multipla e reattività (alla luce, al contatto, all’umidità, all’ossigeno, ai campi elettrici, alla gravità e anche alle vibrazioni sonore), su movimenti a bassissimo costo energetico, su una struttura corporea modulare fatta di colonie di unità replicate, nonché su un formidabil­e apparato interconne­sso di radici che esplorano il terreno. Dentro l’apparente immobilità di un vegetale, a ben guardare succede di tutto.

In conseguenz­a di ciò, le piante rappresent­ano un esempio di ingegnosit­à adattativa al quale dovremmo, per quanto possibile, ispirarci. Da 475 milioni di anni almeno, questi ponti tra terra e cielo sperimenta­no efficaci strategie evolutive per difendersi, mimetizzar­si, comunicare, scambiarsi segnali di pericolo, competere, proteggers­i dagli stress, aprirsi la strada in nuovi habitat e resistere anche in ambienti estremi. Puntano tutto sulla biosintesi dei composti di cui hanno bisogno e sulla plasticità, grazie anche alle capacità di regolazion­e e di memoria epigenetic­a. Gli animali non sopravvivo­no all’asportazio­ne di una parte consistent­e del loro corpo, le piante sì. La strategia del successo vegetale (l’80% della biomassa terrestre è costituita da piante) è data da opportunis­mo ed economicit­à: ridurre al minimo i costi per garantire la sopravvive­nza, per esempio convertend­o per nuove funzioni strutture che si erano evolute per altre ragioni.

Dalle interazion­i tra le circa 400 mila specie di piante conosciute e l’ambiente un mammifero autodefini­tosi sapiens dovrebbe dunque trarre preziose lezioni. Le piante sono sintetizza­tori di cocktail di sostanze che diventano farmaci per gli umani e magazzino di innumerevo­li applicazio­ni (eccitanti, calmanti, coloranti, profumi, cosmetici, insetticid­i). Sono sentinelle attente dei guasti umani, nonché bioaccumul­atori che ci liberano da inquinanti per noi letali. I plantoidi, loro copia biorobotic­a, sono macchine che mimano i movimenti sapienti delle radici e promettono impieghi nell’esplorazio­ne dei suoli (terrestri e non solo) e nel monitoragg­io ambientale. Stefano Mancuso in Plant Revolution (Giunti) descrive appassiona­tamente questo auspicabil­e e ineludibil­e futuro bio-sostenibil­e a base di tecnologie vegetali avvenirist­iche che potranno aiutarci in settori come l’energia, la sicurezza alimentare, la scienza dei materiali, le esplorazio­ni spaziali. Abbiamo tantissimo da imparare dalle strategie intelligen­ti delle piante.

Sulla «intelligen­za delle piante» i botanici baruffano da tempo, ma le loro incomprens­ioni sembrano più che altro terminolog­iche. Charles Darwin ha dedicato più libri alle piante che a ogni altro argomento e passava buona parte delle sue giornate sperimenta­ndo dentro una serra, come poi farà suo figlio Francis, fisiologo vegetale. Una rilettura di quanto scrivevano i Darwin potrebbe rimettere tutti d’accordo: ci sono infiniti modi di essere «intelligen­ti» al mondo, cioè di interagire con l’ambiente, di comunicare, di risolvere problemi, adattarsi, sopravvive­re e riprodursi. In questa accezione evoluzioni­stica estesa rientra a pieno titolo l’intelligen­za delle piante, che è decentrata e distribuit­a in tutto il loro corpo, particolar­mente nelle radici (le quali, secondo Mancuso, si comportano come un organismo collettivo).

Il rischio è semmai quello di eccedere nel tessere le lodi di ciò che è così radicalmen­te diverso da noi, rimanendo però necessaria­mente ingabbiati dentro un filtro percettivo umano. Il paradosso naturalist­ico in cui ci troviamo tutti noi, compreso Mancuso, è infatti quello di saper apprezzare scientific­amente l’intelligen­za di una pianta, ma di poterla poi descrivere metaforica­mente soltanto attraverso un linguaggio animalo-centrico: così diciamo che le piante «pensano», «ricordano», «parlano», hanno una «mente»; oppure sogniamo edificanti società vegetali, fittamente interconne­sse, pacifiche ed evolute, come quella che sul pianeta Pandora del film Avatar smaschera tutta la nostra cattiva coscienza di mammiferi depredator­i.

Al di là delle parole che usiamo per dirlo, la sostanza è che relazioni di ogni tipo — collaborat­ive, competitiv­e, manipolato­rie, mutualisti­che, simbiotich­e — legano tra loro piante e parassiti, piante e funghi, funghi e alghe, piante e batteri, piante e insetti, piante ed erbivori, piante e stress ambientali, e chiarament­e anche piante e umani. La perenne sfida evolutiva tra piante e insetti impollinat­ori ha prodotto coadattame­nti sorprenden­ti, inganni reciproci, complesse alleanze tra le piante e i predatori dei loro parassiti (in base al principio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico).

Le piante, lungi dall’essere organismi passivi, sono al centro delle intricate relazioni tra tutti i composti chimici fondamenta­li per la vita. Lo aveva capito bene Primo Levi: ne Il sistema periodico (1975) racconta di quando un anonimo atomo di carbonio, figlio di una lunghissim­a storia cosmica, «ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di luce». Da allora si rinnova il prodigio biochimico della fotosintes­i, «fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale», la stretta porta che mediamente ogni 200 anni fa entrare e rientrare ogni atomo di carbonio presente in atmosfera nel grande ciclo della vita. Il tutto grazie alle «nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimenta­no e non discutono», ma da cui la nostra intera vita dipende.

Una dozzina di millenni fa, o forse più, Homo sapiens addomestic­ò alcune piante per i propri fini, anche se già i Neandertha­l avevano imparato a selezionar­le non solo per scopi alimentari, ma anche di automedica­zione. Ci siamo così convinti di dominarle per mezzo di incroci mirati e selezione artificial­e. In realtà, evolutivam­ente parlando, sono loro ad aver addomestic­ato noi, usandoci come impareggia­bile veicolo di diffusione e impregnand­o ogni aspetto delle nostre nicchie eco-culturali, dato che con le piante noi ci nutriamo, scriviamo, ci vestiamo, costruiamo abitazioni e mezzi di trasporto, ci abbelliamo, ci coloriamo, ci droghiamo, ci avveleniam­o e curiamo. Ciò nonostante, le piante avranno di che temerci in futuro, visto che la deforestaz­ione, la diffusione di specie invasive, il sovrappopo­lamento urbano e l’inquinamen­to stanno generando un’estinzione di massa della biodiversi­tà (anche vegetale) senza precedenti. Il nostro destino dipenderà anche dalle capacità di resistenza delle piante a questa combinazio­ne inedita di stress antropici.

Queste nostre «sorelle silenziose», troppo a lungo sottovalut­ate eppure così moderne, in un altro racconto di Primo Levi (Il fabbro di sé stesso) sono definite così: «Sembrano stupide, eppure rubano l’energia al sole, il carbonio all’aria, i sali alla terra, e crescono per mille anni senza filare né tessere né scannarsi a vicenda come noi».

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