Corriere della Sera - La Lettura
Marco Santagata
Io elaboravo progetti per ucciderlo o per rovinargli la carriera. Mai accorto di niente. che non avevo io.
Ovvero?
Gli invidiavo il padre. Io vengo da famiglia non colta, ho cominciato a pensare di essere culturalmente più avanzato di mio padre a 6 anni, quando lui mi dettava dei pensierini per scuola, e io di nascosto li strappavo e riscrivevo, pensando: guarda che coglione questo. Il padre di Marco invece era colto, intelligente, protettivo, raccontava tanto di sé, conoscendolo ho pensato: allora si possono avere dei padri così.
Quando c’è stato il vero confronto tra voi?
Lui ebbe l’incarico di insegnamento molto prima di me, io vinsi la cattedra prima di lui: le vittorie di uno non erano automaticamente sconfitte dell’altro, ma in ogni caso lasciavano dei segni. Segni, non ferite.
Ogni dolore suo era per me una piccola gioia, ogni suo successo un mio dispiacere. Quando lui vinse la cattedra, in un concorso a cui io non avevo fatto domanda, ne soffrii come se l’avessi persa io. L’odio già divampava nella sua fase più passionale, pronto a trasformarsi in ossessione odiativa.
E Santagata?
Lui aveva tutto quello
Non sembrava accorgersene, sua moglie mi preparava buoni pranzetti. E io provavo tutto il tormento di un odio non ricambiato.
Davvero non ricambiava l’odio?
Non ricordo di avere nutrito nei confronti di Walter sentimenti di questo tipo. Poi è arrivato Scuola di nudo.
— Nel 1982 intrapresi la lunga strada verso questo romanzo-suicidio che fu per me Scuola di nudo. Sullo sfondo culturisti e erotomania, ma la tra- ma, lo scheletro narrativo non sarebbero mai nati senza un amore: per Bruno Cellai, infermiere fiorentino. E un odio: per Marco Santagata, appunto.
Sempre non corrisposto?
Forse lui non corrispondeva perché non sapevo odiarlo nel modo giusto: dopo la notizia della sua cattedra, sprecai stupidamente le mie energie in una notte di orgia a Firenze.
Diciamo che con Scuola di nudo iniziai ad accorgermi di qualcosa. È un romanzo, e perciò non pochi episodi sono di invenzione, ma parecchi altri sono presi dalla realtà, come i personaggi. Fra questi, ci sono anch’io. Matteo Casimbeni, di Modena, questo è il nome del personaggio a me riferibile, l’antagonista del narratore, Walter Siti, di Modena. Ebbene, il Siti del romanzo nutre nei confronti di quel Matteo un grumo di sentimenti che oscillano fra ammirazione, quasi amore, repulsione, odio, fortissima invidia.
Che cosa ha pensato leggendolo?
Come critico letterario non avevo certo preso alla lettera le affermazioni del libro, ma siccome conoscevo anche con quali trucchi la letteratura svela le realtà nascoste, ero stato costretto a prendere atto che il Siti autore aveva ricostruito un paesaggio sentimentale che fino ad allora io avevo ignorato.
Tutto qui?
Confesso che un punto del libro mi aveva ferito. Quello in cui è raccontata la morte di mio padre. Non mi avrebbe colpito tanto dolorosamente se non fosse stato il resoconto esatto di ciò che era realmente accaduto.
Cosa c’era scritto?
«È morto suo padre, finalmente una notizia bella come un ginnasta in calzoni corti, i miei piedi si abbandonano da soli a una danza di tripudio. Wow wow wow…».
Siti, perché lo ha scritto?
Nella vita reale quando mi è arrivata la notizia, ho goduto: almeno una delle ragioni per cui lo invidiavo era venuta meno. Soffrirà, ho pensato. Sulla pagina mi sono rifatto alla litania, al modello di invettiva, esagerando letterariamente.
La sensazione di avere subito violenza a pagina 182, e anche in altre, non mi impedì di giudicare il romanzo di Walter un gran bel ro- manzo. Se non fosse stato tale, sarei rimasto più deluso di quanto fossi rimasto amareggiato per il trattamento riservato al mio personaggio. Voglio dire che, se Walter avesse fallito, sarebbe crollato l’intero investimento intellettuale che avevo fatto su di lui. Ma Walter non fallì.
Che succede dopo quel libro al vostro rapporto?
Nella copia che mi aveva regalato, Walter aveva scritto: «Sembra buffo dirlo, ma: con amicizia». La cosa doveva sembrare problematica anche a lui.
— Poi lui fece un errore che diminuì il mio odio, cominciò a farlo appassire: lo stimato critico Marco Santagata prese la strada della letteratura — lì mi sentivo io il più forte, quello era il mio terreno, stavolta non sarei arrivato secondo. Scrisse un romanzo erotico sotto pseudonimo, Carlo Tussanti o qualcosa del genere, risposta non proprio felice al mio Scuola di nudo, a parere di molti.
Era davvero una risposta a «Scuola di nudo»?
No. Dopo scrisse romanzi più belli. Uno soprattutto: Il maestro dei santi pallidi. Gliene scrissi, mi rispose.
E poi?
Marco invecchiò, ebbe un attacco di cuore. Io di salute stavo bene, mi limitavo a ingrassare. A Torino, credo fosse nel 2014, lo vidi che sembrava suo padre. A pranzo notai il tremore delle mani nel portare il cucchiaio alla bocca.
Dunque?
L’odio cedeva alla comprensione. Invece di odio, il mio diventava pian piano il ricordo di un rancore, e poi ancora più lentamente una memoria di gioventù.
I vostri rapporti oggi?
Negli anni non si sono interrotti, ma si sono fatti più timidi, più attenti. La confidenza spontanea di un tempo riaffiora a volte, ma facendosi strada tra non detti e cautele. Adesso, che abbiamo entrambi quasi settant’anni. Entrambi del 1947, lui di aprile, io di maggio.
Adesso che abbiamo entrambi settant’anni il passato ritorna più spesso, i ricordi ci legano di nuovo.