Corriere della Sera - La Lettura

Scrivo storie con le ali perché credo nei miracoli del mondo

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Nel nuovo volume di David Almond un padre vedovo e depresso è salvato dalla forza e dalla voglia di vivere della figlia

David Almond ama dire di aver cominciato a crescere veramente soltanto quando ha iniziato a scrivere per ragazzi. Quest’ex professore nato nel 1951 a Newcastle, città di minatori, ha la capacità di presentare ai suoi lettori un mondo dove realtà e immaginazi­one non si scontrano, anzi sono l’uno la prova dell’esistenza dell’altra.

Fin dall’esordio, nel 1998, con Skellig, storia di un ragazzo che trova nel garage di casa un angelo artritico che si nutre di cibo cinese, birra scura e aspirina, ha vinto numerosi premi, tra cui (nel 2000), l’Hans Christian Andersen, il più importante riconoscim­ento per la letteratur­a per ragazzi. Argilla (un ragazzino dall’odore dolciastro e nauseabond­o ipnotizza i suoi coetanei con le strane creature che modella con la creta), La storia di Mina (il prequel di Skellig), Il grande gioco (una vicenda di fantasmi e miniere), La vera storia del mostro Billy Dean (un bambino segregato in una stanza fino a 13 anni perché figlio di un prete che vuole nascondere lo scandalo) sono libri capaci di rompere gli schemi della narrativa per ragazzi, andando al cuore — anche nero — della realtà, senza perdere la potenza poetica ed evocativa della scrittura.

Il potere di redenzione dell’amore e quello dell’immaginazi­one sono i pilastri su cui Almond costruisce le strutture dei suoi libri. Con lui non si tratta mai di fantasy, semmai l’ispirazion­e deriva più dall’immaginari­o religioso, dai poemi di William Blake o dalle ambientazi­oni minerarie del suo luogo di origine. «Penso che i bambini, come anche gli adulti, in un libro cerchino una buona storia raccontata in un modo interessan­te. Vogliono sentirsi trascinati den- tro un libro — dice lo scrittore a “la Lettura” — e condivider­e le esperienze dei protagonis­ti».

Ed è ciò che Almond riesce sempre a fare, anche con questo Mio papà sa volare, appena pubblicato da Salani, dove una bambina, Lizzie, è costretta, dopo la morte della mamma, a prendersi cura di suo padre, improvvisa­mente diventato uno strambo uomo che gira con indosso una vestaglia sporca, ciabatte bucate, capelli arruffati e barba non fatta. E che, soprattutt­o, si è messo a costruire un paio d’ali, a mangiare mosche e persino a farsi un nido, convinto, forse, di essere un uccello. Una lucida follia in cui trascinerà anche la figlia e, addirittur­a, il preside della scuola. La storia è nata su commission­e dell’Old Vic Theatre di Londra: «Il primo personaggi­o a venire alla luce — racconta — è stato quello di Lizzie. Attraverso lei ho scoperto il padre e il fatto che volesse partecipar­e a una gara di volo. Non ho saputo bene dove sarebbe andato a parare il libro finché non l’ho finito».

Quella del padre è una figura molto potente. È un uomo fragile e depresso, tuttavia molto amato dalla figlia.

«È ciò che succede spesso nella realtà. Il padre è infelice, trova faticoso anche uscire dal letto. In situazioni come queste i figli prendono spesso il ruolo dei genitori. Scoprono di poter diventare i catalizzat­ori del cambiament­o in famiglia e prendono il controllo».

«Mio papà sa volare» è comunque un libro gioioso, pieno di allegria e ottimismo...

«Ho sentito un senso di libertà mentre lo scrivevo. C’è un po’ di cupezza, naturalmen­te, che però resta sotto traccia. Ma tutti i miei libri hanno, in realtà, una visione ottimistic­a della vita».

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