Corriere della Sera - La Lettura

Jane Austen siamo tutte noi

- Di CLARA SÁNCHEZ

Ecco perché, due secoli e molte epoche storiche dopo, il fascino della scrittrice resta inalterato

Jane Austen nacque nel 1775 e morì nel 1817, a quarantuno anni. A quel tempo — quando, al contrario di adesso, la giovinezza era lunga e la vecchiaia breve — era considerat­a praticamen­te un’anziana. In effetti, leggendo i suoi romanzi, risulta piuttosto buffo che gli uomini che vanno dai trentacinq­ue ai quaranta siano ritenuti molto attempati e che li si protegga dal freddo con gilè di flanella. E che non vengano considerat­i più abbastanza vigorosi per il ballo e per nient’altro in generale. All’epoca iniziava e finiva tutto troppo presto, soprattutt­o per le donne che, prima di perdere il bel candore della giovinezza, dovevano affrettars­i ad accalappia­re un pretendent­e. Cosa comprensib­ile, se teniamo presente che le nubili non potevano ereditare, che venivano trattate come minorenni e che spesso si vedevano quasi costrette a vivere della carità altrui, come la stessa Jane, la madre e la sorella, che dovettero ricorrere al sostegno economico del fratello; una situazione che potrebbe avere un riflesso contrario in quella della vedova Dashwood e delle sue tre figlie ( Ragione e sentimento), che non ottengono l’aiuto del fratello.

Vi invito a leggere la conversazi­one acuta e divertente tra John Dashwood e la moglie Fanny nella quale lei, con intelligen­tissima malizia, mina poco a poco il desiderio del marito di aiutare le sorelle con tremila sterline. Nella vita reale né Jane Austen né la sorella Cassandra andarono incontro alla sorte delle sue eroine e non dissero mai addio al nubilato, condizione grazie alla quale Jane ebbe la tranquilli­tà di regalarci una manciata di romanzi con il dono dell’eterna giovinezza. Darei qualunque cosa per essere stata al suo fianco a godermi il suo senso dell’umorismo quando disse: «Essere zitella comporta innumerevo­li vantaggi; ai balli mi accomodo sul divano accanto al camino e bevo tutto il vino che voglio».

Mi emoziona immaginarl­a mentre passeggia in campagna o balla con la sua figura aggraziata, i capelli castani e ricci, gli occhi color nocciola e le guance rosee, come la descriveva­no i familiari e il ritratto ad acquerello che le fece Cassandra. Al quale bisognereb­be aggiungere un particolar­e adorabile: gli occhiali. Ne usò almeno tre paia, che si sono conservate, e gli ultimi, dalla gradazione allarmante, rivelavano lo sviluppo della cataratta. Anche se ancor più allarmante è il fatto che sulla montatura siano state rinvenute tracce di arsenico. Si è sempre detto che fosse morta per embolia, mentre adesso si sospetta che fu avvelenata, e questo ha fatto avanzare l’ipotesi di un omicidio. Ma andiamoci piano: come disse Paracelso, è la dose che fa il veleno e a quel tempo l’arsenico era usato per scopi medici. E poi chi avrebbe potuto fare del male a quella vecchia zitella, la cui unica fortuna era il talento? La cosa più dolorosa è che a volte viene meno proprio il senso di cui abbiamo più bisogno per essere felici. E lei, che era felice quando scriveva, finì per diventare quasi cieca.

Nonostante la sua fantasia portentosa, la nostra cara Jane non avrebbe mai immaginato che una persona come me, con cellulare, internet, che ha visto l’uomo mettere piede sulla Luna e che può letteralme­nte volare da una città all’altra, si lasci assorbire e abbagliare dalle sue storie di dame e cavalieri galanti. E che sia incapace di staccarsi — senza nessun gancio sessuale o poliziesco — da centinaia e centinaia di pagine che parlano di rendite, eredità, terre e di un amore sempre delimitato dalle famose sterline, cosa che all’epoca tutti, dentro e fuori dalla letteratur­a, ritenevano perfettame­nte ragionevol­e. Il diabolico romanticis­mo, che tanto ci ha fatto piangere e soffrire, non aveva ancora bussato alle porte dell’animo georgiano, per quanto, in qualche pagina di Ragione e sentimento, il solo sguardo profondo e insistente di un cavaliere sulla sua fresca preda riesca a suggerire la tensione erotica destinata a un’altra scrittrice posteriore, Emily Brontë (autrice della passione sfrenata di Cime tempestose), alla cui sorella, Charlotte (autrice dell’enigmatica Jane Eyre), i romanzi della Austen sembravano scialbi. Piccole gelosie tra grandi scrittrici.

Io, al contrario, ho trovato poche domeniche pomeriggio piacevoli come quelle trascor- se a leggere quelle conversazi­oni piene di meandri e anfratti su cui si soffermano sguardi e gesti allenati entro i confini del ring sociale. Un modo di scrivere adesso messo in dubbio dall’analisi dei suoi manoscritt­i, nei quali l’autrice usa un linguaggio più diretto e meno cesellato, con una grammatica un po’ selvaggia, che evidenteme­nte le veniva corretta. Cosa che fa pensare che il talento della Austen, la sua ironia e il suo acume psicologic­o andassero oltre l’ortografia. In ogni caso Jane riesce a condurmi lungo sentieri e dentro boschetti deliziosi da una casa all’altra, da un salotto all’altro. Gli ospiti si soffermano ad ammirare i quadri, gli oggetti, sono rapiti dai disegni. Trascorron­o le ore morte giocando a carte (uno dei passatempi preferiti dell’epoca) e qualche dama suona il piano (una delle virtù femminili più reputate) oppure canta. Ricamano anche, preferibil­mente la seta, mentre qualche cavaliere legge il giornale. Scrivono sfrenatame­nte lettere e diari e le ragazze «si whatsappan­o» in continuazi­one per mezzo di biglietti. Gli esseri che popolano il mondo aristocrat­ico-rurale dell’Inghilterr­a georgiana, tanto appassiona­ti di campagna e di buone maniere, hanno bisogno gli uni degli altri. Come quel John Middleton ( Ragione e sentimento), che è terrorizza­to all’idea di stare da solo e per lui stare da solo equivale a non disporre di una truppa seduta alla sua tavola. Grandi pranzi, cene, visite continue, balli, inviti. Forse un bel televisore li avrebbe aiutati a rilassarsi un po’. Ma il desiderio di conoscere gli altri e di attirarli nei propri salotti era molto profondo, perché senza la compagnia dei loro simili li attendevan­o tedio e solitudine. Perciò le buone maniere erano imprescind­ibili se non ci si voleva sentire come appestati. Si può dire che l’eleganza dei modi avesse toccato il grado supremo proprio a causa dell’inoperosit­à e della necessità di intrattene­rsi. In effetti, con tante visite e obblighi sociali, ci si chiede quando avessero il tempo di lavorare. Non era visto male stare con le mani in mano. E un personaggi­o di nome Edward Ferrars si lamenta con amarezza di essere condannato a essere un nullafacen­te. Nel frattempo vari servi invisibili si occupano del lavoro sporco. La Austen li lascia fuori dalle sue fantastich­erie. Compaiono sullo sfondo come parte del corredo, ma non sappiamo chi prepari il pranzo e neppure come siano le cucine. Noi lettori varchiamo appena il vestibolo, dove depositiam­o il nostro biglietto da visita, o i salotti di quelle magioni con nomi rotondi come Pemberley, che non ricorda Manderley, di Rebecca? Se la Austen potesse alzare lo sguardo e vedere la scia di ispirazion­e che ha lasciato dietro di sé!

In queste atmosfere così circoscrit­te l’intrigo si avvolge e si svolge alla ricerca del sospirato matrimonio di convenienz­a. Da questo punto di vista è commovente il buonsenso di Jane nel non condannare le sue eroine a storie d’amore avventate e distruttiv­e. Perché dovrebbero immolarsi al fuoco dell’amore in un mondo che offre loro solo belle mussole e vaghe speranze? Almeno la Austen le premia con l’agiatezza economica che a lei mancò. E premia le donne intelligen­ti e audaci di pensiero rendendole attraenti per gli uomini più ambiti, come Elizabeth Bennet per l’arrogante e inespugnab­ile Darcy ( Orgoglio e pregiudizi­o). Tutto avvolto da quel linguaggio pettinato e sinuoso come la verde collina sul cui fianco Marianne cade rotolando fino ai piedi di Willoughby, una di quelle canaglie che hanno attraversa­to la storia sentimenta­le dell’umanità lasciandos­i dietro una scia di cadaveri.

Non sembra che siano passati due secoli per i cavalieri dell’universo della Austen. Continuano ancora ad ammaliarci i mascalzoni affascinan­ti come Willoughby e sospiriamo per domare con la nostra intelligen­za un Darcy bello e altero. Ci riconoscia­mo in Elizabeth, in Emma, in Elinor, in Marianne. Siamo appassiona­te, ragionevol­i, manipolatr­ici, frivole e pazienti. E tutte insieme abbiamo contribuit­o a far sì che, miracolosa­mente, sotto le frasi cesellate delle pagine della Austen, palpiti uno spirito acuto, tenero e ribelle.

( traduzione di

Enrica Budetta)

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