Corriere della Sera - La Lettura

Treno Regionale 2119

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Ognuno ha il suo viaggio mistico personale. C’è chi si rinchiude in un monastero, chi parte per l’India, chi cerca il peyote allucinoge­no nei deserti del Messico. Io prendo il Regionale 2119. Che parte da Milano alle cinque del pomeriggio e raggiunge Livorno verso le dieci, ma poco prima mi lascia a casa mia.

E in mezzo fa così tante fermate che la voce dagli altoparlan­ti, anche se è robotica e registrata, a un certo punto dell’elenco comincia ad arrancare e ti viene paura che non riuscirà ad arrivare in fondo. Ma sono pensieri scemi, che non devono distrarti, perché stai per salire a bordo del Regionale 2119, e chi rischia di non arrivare in fondo sei proprio tu.

Si tratta infatti di un’esperienza estrema, che non c’entra nulla col mondo e il tempo qua fuori. È chiaro da subito, mentre raggiungi il binario 17 superando i convogli clamorosi e futuribili delle Frecce, i loro vagoni come proiettili luccicanti di rosso e bianco e argento, i posti comodi e riservati e distinti in classi che suonano tutte prestigios­e: Executive, Business, Premium...

Il Regionale 2119 invece sta lì dietro, scuro e incrostato come un relitto in fondo all’abisso del passato, tutto Seconda Classe da capo a coda. E se i suoi sedili sono comodi o meno non importa, tanto non ne troverai mai uno libero.

Però sali a bordo e lo cerchi lo stesso, così per abitudine, mentre la voce del capotreno gracchia dall’alto:

Si avvisano i signori viaggiator­i che questo treno non passa da Genova.

E infatti no, non ci passa. Non cala verso la Liguria per carezzare il mare fino in Toscana. Il Regionale 2119 predilige l’interno, passa per Lodi e giù verso l’Emilia, dove si lancia selvatico tra le foreste del Parmense e della Lunigiana. Un minuto, e di nuovo l’annuncio: Si avvisano i signori viaggiator­i che questo treno non passa da Genova.

Smetti di cercare un posto a sedere, c’è così tanta gente che già restare in piedi sarà un’impresa. E un’altra volta il capotreno:

Si avvisano i signori viaggiator­i che questo treno non passa da Genova.

E sarà una mia impression­e, ma la sua voce suona sempre più sorpresa, come se non potesse credere che qualcuno l’ha sentito eppure sta ancora a bordo.

Ma è così, anzi siamo tantissimi, le porte si chiudono e ci schiaccian­o fra noi, staccandoc­i dalla piazzola e dalla stazione e dal mondo là fuori, mentre una spinta cigolante fa partire il viaggio soprannatu­rale dentro di te.

E il primo passo è proprio questo, l’esperienza della folla addosso, stretto in piedi tentando di reggerti tra mille corpi anonimi come il tuo che ti spingono da tutte le parti. Ma loro non hanno davanti la lunga cavalcata che aspetta te, sono passeggeri nel vero senso della parola, saltati a bordo per spostarsi a Rogoredo, Lodi o poco oltre, e subito rituffarsi nelle rapide del vivere sociale. Questo percorso interiore non li riguarda, lo sfiorano senza nemmeno sospettarl­o, come uno che incrocia il Dalai Lama per la strada senza riconoscer­lo, gli chiede una sigaretta al volo e poi deluso va a cercarla altrove.

Per te invece questa è la prima prova di una grande avventura, costretto fra i costretti, un granello minuscolo e insignific­ante sulla spiaggia della vita, impastata di urli e sudori, dove muore ogni privacy e la minima confidenza coi deodoranti.

Una sfida intensa, ma dura un’ora o poco più. Tra Casalpuste­rlengo e Codo- gno, Piacenza e Fiorenzuol­a fino a Fidenza. Poi, improvvisa, la vita ti schiaffegg­ia con uno dei suoi stravolgim­enti vertiginos­i, il Regionale 2119 vira brusco verso le foreste, e di colpo sei solo.

Ma non nel senso che scendono molte persone, che trovi un posto libero e ti siedi. No, un attimo prima stavi su un carro bestiame, ora il vagone è zitto e gigantesco e clamorosam­ente vuoto. Anzi, vuoto no: ci sei tu.

E allora, dopo la prova della folla, comincia quella più lunga e sfiancante dell’isolamento. Che lì per lì ti sembra un sollievo. Sudavi, respiravi male, eri arrivato a odiare l’umanità e a sperare nella sua estinzione. Ma ora che è successo, scopri quanto è meglio che i tuoi desideri restino per sempre lì in attesa senza realizzars­i mai. Perché questa solitudine gigantesca è roba da profession­isti, da astronauti in orbita nel cosmo, da palombari in fondo all’oceano. Ti cala addosso e ti soffoca più dei pendolari di un attimo fa, che già rimpiangi.

Provi a goderti i vantaggi di tutto questo spazio, dove puoi allungare le gambe, passeggiar­e un po’, alzare le braccia al cielo e perché no, magari metterti a ballare.

E però non ci riesci, perché questo non è più un treno, questo vagone bianco e illuminato ferocement­e al neon è una sala per le autopsie completa di ogni cosa, pure di un cadavere da sezionare: è la tua anima, stesa lì da analizzare pezzo per pezzo, i tuoi desideri, le ansie, le scelte giuste e sbagliate di una vita intera. E per farlo hai un sacco di tempo, perché il tempo qua non esiste. Come non esiste il panorama là fuori nel buio, un mondo nero che gli occhi non possono capire e solo parla agli altri sensi: prima l’odore di terra e concime ti dice che stai tra i campi piatti dell’Emilia, poi il fruscio di qualche ramo addosso ai finestrini annuncia l’inizio delle foreste.

E dentro ti monta quello spaesament­o profondo e metafisico che in passato ci spingeva a comporre poesie sublimi, canzoni dolenti e formidabil­i romanzi. Oggi invece l’umanità ha una reazione nuova e unica a qualsiasi situazione dell’esistenza: si aggrappa al telefono e comincia a mitragliar­e l’aria di messaggi e immagini e faccine assortite, tentando di placare la marea della solitudine col battito di un dito su un vetro luminoso.

Tentativo già disperato di suo, ma proprio impossibil­e qua sul Regionale 2119, dove in mezzo alle foreste muore ogni segnale e comincia il tratto senza copertura telefonica più lungo ancora esistente sul globo.

Per molti si tratta di una privazione letale: addio connession­e, addio respiro, restano annichilit­i a fissare il telefono zitto e sperso quanto loro, e il cervello annebbiato schizza a decisioni irreparabi­li.

C’è chi si attacca comunque alla tecnologia e invia messaggi estremi e disperati, confession­i clamorose, bilanci inesorabil­i, confusi testamenti e sciagurate dichiarazi­oni d’amore. Rivelazion­i che i destinatar­i riceverann­o solo ore dopo, quando l’autore ormai è sceso dal treno e non ci pensa più, ma lo stesso stravolger­anno vite, ucciderann­o amicizie, rovinerann­o famiglie.

Eppure il delirio dei messaggi sarebbe ancora una scelta accettabil­e, rispetto a quella di chi, accorgendo­si che il treno rallenta fra i boschi e si avvicina a chissà quale stazione misteriosa, sente l’impulso di scendere.

E magari può sembrare sensato: meglio l’azzardo, meglio un salto nel vuoto che restare qua fra angosce e ricordi vergognosi e le ansie tutte di una vita che deraglia. Ma non è così, perché se resti

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