Corriere della Sera - La Lettura
L’economia vittima dei teoremi
Le discussioni sulla finanza si stanno impoverendo a causa di una convergenza senza precedenti attorno al totem di modelli matematici coerenti. E prevalgono, denuncia Andrea Boitani, i luoghi comuni. Ma vale qui quello che vale per i vaccini: la conoscenz
Sicuramente Sette luoghi comuni sull’economia (Laterza) è un libro scomodo e lo dimostra come in sede di recensioni sia stato maneggiato con molta cura. E del resto è un libro che si propone sin dal titolo di smontare i luoghi comuni dell’economia. A scriverlo è stato un economista dell’Università Cattolica di Milano, Andrea Boitani, e per la presentazione romana — a porte chiuse — si è mosso persino il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. È il testo di un keynesiano convinto, persino affettuoso nei confronti del maestro, che ha voglia di battagliare con quello che viene chiamato il mainstream, l’opinione prevalente nella scienza economica dei nostri giorni. E se nel mirino di Boitani ci sono soprattutto gli economisti liberisti, i sette luoghi comuni che si propone di sfatare abbracciano uno spettro più ampio di opinioni.
Accanto ai presunti guai causati dall’euro, ci sono affermazioni come «senza le riforme non si esce dalla crisi» oppure «è tutta colpa delle banche e della finanza», ma anche una vulgata che a un keynesiano non dovrebbe dispiacere, almeno in teoria, ovvero «per rilanciare l’economia servono grandi investimenti infrastrutturali». Ma il luogo comune principe, quello che dà il tono all’intero lavoro, è «se il debito pubblico è alto ci vuole l’austerità».
Tra i bersagli individuati da Boitani si staglia l’economista italiano Alberto Alesina, accusato di teorizzare l’austerità espansiva, strumento necessario per cambiare le aspettative e far tornare la fiducia riducendo il ruolo dello Stato. Per Boitani si è rivelata invece «austerità punitiva» e lo dimostra il fatto che «la disoccupazione è diminuita solo in un Paese, la Germania, che non ha attuato strette fiscali».
Al di là delle singole querelle sollevate, non si può non dare ragione a Boitani sulla denuncia di fondo di un impoverimento del dibattito economico causato da una convergenza senza precedenti — il mainstream — attorno al totem dei modelli matematici assolutamente coerenti, convergenza che nega all’economia quel carattere di scienza sociale che aveva agli albori. Che poi questa straordinaria omogeneità abbia reso più debole l’economia stessa, nel momento in cui avrebbe dovuto prevedere la grande discontinuità della crisi finanziaria del 2008, va da sé. Come va da sé che, pensando di poter maneggiare la realtà sociale come si fa in laboratorio con i microbi, oggi la scienza economica non sappia tener conto della nuova centralità delle religioni.
Davanti alla complessità della questione islam l’afasia degli economisti è evidente. I luoghi comuni, secondo Boitani, si diffondono per auto-convincimento o pigrizia intellettuale e fin qui non sarebbe nemmeno un dramma, il guaio vero è che la loro «accettazione acritica» genera danni e «alti costi sociali». Non c’è dunque un Grande Fratello dietro la diffusione delle convinzioni errate, ma più volte Boitani fa riferimento all’egemonia dell’establishment politico-bancario tedesco, capace di imporre la sua visione della crisi finanziaria e fortunato per aver trovato narratori accomodanti nel resto dei Paesi d’Europa. Solo che — annota polemicamente Boitani citando un economista di Oxford (Simon Wren Lewis) — «la crisi dell’eurozona non è stata prodotta in Grecia, Irlanda o Spagna, è stata made in Germany ».
Ma si può tirare una linea di continuità tra il mainstream anglosassone e la posizione tedesca? La sensazione è che, al di là di alcune con- vergenze, siamo in presenza di matrici differenti. Quello tedesco appare quasi un dogma ispirato da un approccio di carattere etico-religioso ai temi della finanza pubblica, combinato però alla capacità di saper intervenire con efficacia su alcuni aspetti micro-economici come l’istruzione, le relazioni industriali, la tecnologia.
Fin qui in estrema sintesi un libro destinato a increspare le acque. E che si rivela ancora più utile quando esce dalla strettoia del dibattito tra scuole economiche e rimane fedele al titolo: la formazione dei luoghi comuni. Specie in una fase storica nella quale la diffusione di analisi/giudizi sulla politica economica ha subito un processo di disintermediazione.
Una volta quando a fine dicembre i governi di Roma partorivano tra mille doglie la legge Finanziaria a commentarla il giorno dopo sui quotidiani era un numero ristretto di sacerdoti dell’informazione che, con tanto di matita rossa e blu, evidenziavano i singoli errori, segnalavano le incoerenze e infine emettevano il verdetto finale. Oggi il web ha ampliato enormemente il numero dei commentatori delle vicende economiche, introducendo nell’arena competenze professionali non di matrice giornalistica, ma per lo più veicolando le elaborazioni più strampalate.
Ci sarebbe anche in questo caso da riprendere la discussione nata sui vaccini, ovvero se la scienza — compresa quella economica — sia riconducibile del tutto a una validazione di tipo democratico, ma è sufficiente annotare come la rete sia congeniale alla produzione industriale di luoghi comuni. Alcuni li ha elencati nei giorni scorsi l’esperto di welfare ed ex parlamentare Giuliano Cazzola in un lungo articolo su «il Foglio». Un esempio su tutti. «Quando si dice che il 40% dei giovani non ha lavoro al denominatore non va inserito il totale della popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni, ma soltanto chi lavora e chi cerca».
In questo modo la percentuale scende al 1011% per «il complesso delle coorti di quelle fasce d’età». Però in questo caso più che di una fake news nata online si tratta di una prassi Eurostat che chiede confronti omogenei ai vari Paesi. Ma, aggiunge Cazzola, quel luogo comune distorce l’individuazione di policy mirate, perché una cosa è concepire interventi rivolti a una platea di disoccupati di circa 3 milioni di unità, altra è trovare soluzioni per 500-600 mila giovani. La domanda che ne consegue è se sia giusto davanti a una malattia prendersela con il termometro. Sicuramente no, sarebbe saggio però nel tempo proporsi di adeguare i termometri, perché non è detto che le malattie siano sempre uguali a se stesse.