Corriere della Sera - La Lettura

Su e giù dal podio La mia prospettiv­a sul Giro d’Italia

Ciclismo La corsa arriva alla centesima edizione: con «la Lettura» la rivive uno dei suoi protagonis­ti

- Di FELICE GIMONDI

Il mio rapporto col Giro inizia così: arrivo quarto a una tappa, vado al Processo di Sergio Zavoli. E dico che quelli della Molteni hanno fatto «un casino» nel finale della corsa. Per quella parola la Rai interrompe la diretta. Zavoli era furente, non mi voleva più in television­e. E quando io poi qualche settimana dopo vinsi il Tour non andai alla Domenica sportiva, con la scusa di correre i circuiti. In seguito abbiamo fatto pace, io e Zavoli.

E anche io e il Giro, dato che nessun altro è mai salito nove volte sul podio: l’ho visto dall’alto di quei gradini, dal basso dell’asfalto dove sono caduto, rimanendo semi incoscient­e per alcuni secondi. L’ho visto dal camion dove mi portava mio zio da bambino, purché tifassi Bartali. Dall’ammiraglia come team manager, dalla scrivania come presidente, dalla tribuna come ospite. L’ho visto cambiare assieme alle strade e alle facce dell’Italia.

Ma la grande forza del Giro è forse quella di non cambiare mai. E di contenere tutto dentro di sé. La vita, con i suoi passaggi chiave, dall’infanzia alla maturità. L’amore, perché nel 1965 a Diano Marina rividi Tiziana, che poi sarebbe diventata mia moglie. La morte — di un bambino per il crollo di una struttura nel 1969 e di un collega, lo spagnolo Santisteba­n, nel 1976 — che ti toglie il fiato e ti costringe a relativizz­are tutto. Le minacce di rapimento, sempre nel 1976, che hanno coinvolto mia moglie. E poi la gloria: da corridore mi chiedevo se sarei rimasto nella memoria della gente e oggi posso dire di sì, ci sono ancora. Soprattutt­o grazie al Giro.

L’altra faccia ovviamente è la sconfitta e io l’ho conosciuta bene, perché se non trovo l’Eddy Merckx nel pieno della maturità fisica, allora ho la presunzion­e di dire che potevo vincerne 5 di Giri, e un paio di Tour, come un signore che si chiama Fausto Coppi, al quale all’inizio tutti mi accostavan­o.

Ma il Giro è una grande scuola di vita proprio perché ti insegna a perdere. E questo ti torna utile dopo, quando cresci e sai che ormai devi trovare il tuo posto in un mondo completame­nte diverso. Quando ho smesso di correre, ho ripreso a fare le aste con la penna, come in prima elementare: avevo vissuto fuori dal mondo reale. E in qualche modo ho dovuto ricomincia­re. Ma il Giro ha continuato a fare parte della mia vita. E oggi siamo or-

mai all’edizione numero 100.

Purtroppo, mi viene da dire. Perché vuol dire che sono davvero passati tanti anni: io ho vinto l’edizione numero 50, nel 1967 e per me era la prima volta. Al debutto nel 1965 sono salito subito sul podio, terzo: poi sono andato al Tour, con l’idea di fare solo una settimana. Ma sono arrivato fino a Parigi. E l’ho fatto con la maglia gialla addosso. Vincere prima il Tour del Giro per un italiano è davvero insolito. Ma ciò non toglie che la corsa rosa rimanga unica per noi: il Giro fa parte della nostra vita fin da subito ed è una te st i monianza a nche del l a s tor i a d’Italia, perché in 100 edizioni sono successe tante, tante cose.

Senza tornare indietro di un secolo, guardiamo a com’eravamo messi cinquant’anni fa: c’è stato un ribaltamen­to totale. Si sta meglio oggi? Sì. Ma si

viveva meglio allora, almeno mi pare. Con meno esasperazi­one, meno tecnologia, meno problemi sociali. Oggi come allora c’è il Giro: un momento fondamenta­le per il Paese. Io letteralme­nte ho scoperto l’Italia pedalandoc­i da corridore, perché vacanze, a parte il viaggio di nozze, all’epoca non ne facevo per nulla.

Soprattutt­o le montagne, ho imparato a conoscere. Le Tre Cime di Lavaredo al Giro del 1967 sono rimaste nella storia, perché ho vinto la tappa, che è stata annullata per le spinte ricevute da tutti sulla salita. Qualcuna l’ho presa anch’io ma avevo una gamba migliore degli altri, almeno così credo. E per protesta minacciai di andarmene. Non lo feci. E poi tra Tonale e Aprica staccai quell’aquila di Anquetil, andando a vincere la mia prima maglia rosa. Ho parlato di Coppi, ma come temperamen­to e caratteris­tiche io ero più vicino a Bartali, un diesel duro a morire. E lui al Giro del 1966, dopo un mio arrivo difficolto­so a Moena, in Trentino, mi consigliò di triturare una decina di sigari toscani e fare un impacco con l’acqua calda. Il caso volle che il giorno dopo a Belluno vinsi io.

Vinsi anche il Giro del 1969, quello della positività di Merckx a Savona: noi campioni siamo stati i primi a sviluppare la ricerca e i controlli antidoping. Nel 1968 ero stato trovato positivo al Reactivan ma venni scagionato grazie ai test successivi fatti da due luminari, messi a disposizio­ne dalla Salvarani, il mio storico sponsor assieme a Bianchi. E fui riabilitat­o.

La mia storia d’amore col Giro però è stata molto altro e ha avuto il finale che sognavo, con la vittoria del 1976, la terza. Oddio, non tutto filò così liscio alla fine: in piazza Duomo non trovai mia moglie Tiziana. Venni scortato da agenti in borghese, con la scusa della «troppa confusione». Di mia moglie nessuna traccia, nemmeno nell’hotel della squadra. E vincere il Giro non mi sarebbe capitato mai più. Poi ho saputo che lei il sabato prima dell’ultima tappa aveva ricevuto delle minacce, non mi aveva detto niente ed era rimasta a casa, sotto controllo dei carabinier­i.

Davvero ho vissuto tutto, al Giro. Anche una volta sceso dalla bici. Da presidente della Mercatone Uno ho visto Pantani fare sempre di testa sua. E perdersi, senza più ritrovarsi. Da pensionato, adesso mi godo Nibali, che in effetti mi è sempre somigliato più di altri. Io vincevo anche la Roubaix e la Sanremo, ma forse in salita va più forte lui. L’importante è che adesso vada più forte del colombiano Quintana, per me il principale favorito. Auguri a lui. E soprattutt­o al Giro.

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Felice Gimondi (Sedrina, Bergamo, 1942)

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