Corriere della Sera - La Lettura
Tutta la tenerezza del Guercino
Salite sulla cupola della cattedrale di Piacenza: vedrete da vicino l’inventiva affettuosa del pittore
Misteri delle cattedrali! Quella di Piacenza ne nasconde uno che solo ora, con la mostra del Guercino, si scopre. Sta dentro lo spessore delle mura, che celano strette scale a chiocciola costruite per ispezionare i tetti. I gradini sono alti e sono tantissimi, ma con un po’ di fatica ci si trova a camminare sull’estradosso delle volte delle navate laterali. I led illuminano il cammino squarciando il buio, le rare finestre aprono viste sui tetti della città su cui domina il tiburio di Sant’Antonino. Ci si addentra in stretti corridoi e passaggi e, infine, ancora una rampa e ci si affaccia sull’interno della cattedrale. Siamo a circa trenta metri dal suolo, secondo uno dei cartelli informativi incontrati lungo il percorso. Visti dall’alto, gli archi del presbiterio sembrano aprirsi come corolle d’un fiore. Mentre il pavimento, a corsi di marmi rossi e neri, si estende senza che se ne veda il principio o la fine. A volte i commentatori medievali hanno attribuito alla chiesa l’immagine d’una nave e appunto a un mare di marmo fa pensare questo lussuoso lastricato.
La cattedrale fu fondata nel 1122, come ricorda un’epigrafe sulla facciata. Forse i costruttori avevano in mente lo sviluppo del duomo di Parma, ma i lavori proseguirono tra il 1212 e il 1215 per concludersi nel 1235. Il tiburio, dove ora ci troviamo, s’innalza al disopra dei forti pilastri con esili semicolonne che sembrano sostenere una galleria affacciata sull’interno, in alternanza con quadruplici trombe d’angolo. È per affacciarci dalla galleria che siamo saliti quassù. La sosta sarà breve, perché altri piccoli gruppi selezionati di visitatori premono. Per fortuna, un video e diversi ingrandimenti fotografici hanno allenato i nostri occhi. Abbiamo visto anche, esposti, i documenti, che c’informano dell’arrivo a Piacenza del Guercino nel maggio 1626.
Il pittore era già allora un maestro famoso. Aveva avuto successo nella Roma di Gregorio XV. Aveva realizzato opere divenute presto celebri, come il soffitto del Casino Ludovisi, o dell’Aurora, capolavoro d’illusione prospettica e nello stesso tempo capace di trasmettere il fremito del mondo al risveglio.
Guercino era venuto fin qui a dare il cambio al Morazzone, uno dei più valenti pittori lombardi del tempo, morto, forse, dopo aver ultimato due vele delle otto che compongono la cupola che chiude il tiburio. Si apriva così un confronto diretto tra colore lombardo e colore bolognese, tra una concezione drammatica che esaspera il teatro manieristico e la grande serenità luminosa introdotta nella pittura italiana da Annibale Carracci.
Il programma richiedeva negli otto spicchi della cupola altrettanti profeti; nelle lunette, in quelle in cui si aprono le finestre le Sibille, nelle rimanenti quattro lunette le scene dell’infanzia di Gesù, dall’Annuncio ai pa- stori fino al Riposo durante la fuga in Egitto. Dalla galleria, siamo all’altezza delle Sibille, faccia a faccia con loro. Guercino le ha pensate come persone vere, ciascuna con una propria individuale, inconfondibile e fiorente bellezza. Possono apparire pallide o con guance accese, qualcuna intenta a scrutare nei libri spalancati il destino, altre stringono gelosamente il volume al petto. Sono tutte in abiti di scena. Le sete lustrano, i morbidi scialli scivolano e le acconciature sono le più varie, cuffie e turbanti, trecce e corone. Tra loro e i profeti il contrasto è forte, poiché questi sono visti di scorcio contro il cielo e Guercino, mentre Morazzone li rappresenta chiusi in un blocco tra le nubi scure e gli angeli che li accompagnano, Guercino no, Guercino li ha voluti liberi nei movimenti, percorsi dalla luce celeste, anziché in tenebrosi controluce. Ora giovani e sognanti, ora eleganti per i turbanti con i colori dei pavoni, oppure rudi e cotti dal sole. Il colore, vibrante e cangiante, è tutt’altro da quello del Morazzone.
È però soprattutto nelle lunette che si dispiegano la tenerezza di osservazione e l’inventiva narrativa del Guercino. Da vicino, possiamo ammirare cose che perderemo quando non ci sarà più data questa occasione eccezionale. Per esempio, la quieta scena del pastore addormentato tra le sue pecore, rivelato dalla luce dell’alba. Le lunette archiacute costringono a composizioni serrate, risolte mettendo gli attori per lo più inginocchiati. Persino il sacerdote che accoglie il Bambino nella Presentazione al tempio è insolitamente seduto su un seggio piuttosto basso. Comprimere così le scene è certamente un tour de force, ma che dà al Guercino l’occasione di esaltare gli affetti, portando l’azione in primo piano, insistendo sui volti. Nel Riposo durante la fuga in Egitto, un affettuoso Giuseppe non dove alzarsi per porgere a Maria, accovacciata a terra, il Bambino che si precipita verso di lei, che sta già sul punto di slacciarsi la camicia per allattarlo. L’asino che assiste alla scena non può non far pensare al Caravaggio.
L’attenzione del Guercino verso l’infanzia ha modo di manifestarsi nei dodici putti che, sempre negli spazi limitatissimi di un’architettura romanica, giocano con una ghirlanda di fiori e di frutti nel fregio della galleria.
Per Guercino i bambini sono in contatto con il mondo celeste per una loro privilegiata innocenza: lo dimostra bene — nella mostra ospitata a Palazzo Farnese, ideata da Daniele Benati, che accompagna e integra la visita alla cattedrale — la tela col miracolo di san Carlo, proveniente da Cento, dove la bambina, che vede apparire il santo, tira la veste della donna intenta al camino, per mostrarle con il dito l’apparizione.
Nel 1627 i lavori della cupola erano finiti. Il Guercino tornò a Cento, dove rimase fino al 1642, per stabilirsi a Bologna. L’impeto del Barocco stava cedendo alla ricerca d’ una bellezza immutabile, che Guido Reni aveva raggiunto. Anche il Guercino ne subì il fascino e il dipinto Cristo risorto appare alla madre, dalla pinacoteca di Cento, qui esposto, datato tra il ’28 e il ’30, è già un segnale di un orientamento nuovo. Il Cristo, giovane e bello, il cui corpo luminoso e intatto, tranne che per la cicatrice sul costato, rappresenta già una bellezza ideale, anche se ancora si avverte un bisogno di realtà e di calore nella mano della madre che lo tocca.
Così la cupola di Piacenza è testimone dell’ ultima stagione del Guercino, mentre pone a contrasto l’immediatezza affettiva e il colore del pittore emiliano con la costruzione più ragionata del lombardo Morazzone, anch’egli formatosi a Roma, ma in anni precedenti al soggiorno del Guercino.
Sorprese Il pastore addormentato accarezzato dalla luce dell’alba, Maria sul punto di slacciarsi l’abito per allattare Gesù: nelle lunette le soluzioni «architettoniche» dell’artista emiliano svelano la bellezza della sua ultima stagione prima della «fascinazione barocca». Una visita eccezionale (e una mostra) lo confermano