Corriere della Sera - La Lettura
Il vendicatore cambia autore ma i mostri siamo sempre noi
Declan Donnellan, regista acclamato, porterà a Milano un testo elisabettiano prima attribuito a Tourneur e ora a Middleton
Declan Donnellan è uno dei registi più quotati e premiati del mondo e ora ha deciso la sua prima produzione italiana al Piccolo Teatro di Milano: è La tragedia del vendicatore la più dissoluta, raccapricciante tragedia elisabettiana che, quando il testo fu allestito da Luca Ronconi era di Cyril Tourneur mentre ora è firmato da Thomas Middleton. Tourneur fu lodato da Marcel Schwob che lo inserì nelle sue Vite immaginarie e da Eliot che di assassinii, pur nella cattedrale, se ne intendeva. Turpitudini, cadaveri en travesti, stupri, ammazzamenti, teschi avvelenati, sbudellamenti, tutto presso la corrottissima corte di un Duca Italian style col vendicatore sulla soglia della reggia. Pulp elisabettiano, fiction alla Tarantino? Che cosa dice Donnellan a «la Lettura»? «È più raffinato di Tarantino. È un testo che da sempre voglio allestire e gli attori italiani lo faranno benissimo».
Ma è cambiato il nome dell’autore.
«Nella Londra del 1606 non prendevano sul serio il diritto d’autore né l’eredità intellettuale. Shakespeare non si è mai preoccupato di stampare i suoi lavori né tantomeno Middleton. Il primo stampatore, tale Archer, attribuì la Tragedia del vendicatore a Tourneur ma negli ultimi anni gli studiosi hanno deciso che è di Middleton». Il testo rimane quello.
«Il valore non cambia, altrimenti torniamo
alle questioni dell’identità di Shakespeare: qualcuno questi testi li ha pur scritti! Che cosa mi seduce di questa cavalcata di mostri? Che tutti possiamo essere mostri, non sempre e solo gli altri: ci illudiamo. Da cui il disastro, le guerre». Come lavorerà sul copione?
«Lo rimaneggiamo, io con gli attori, ce lo indossiamo. Un lavoro in due parti: conosceremo a fondo il testo quando il cast ci lavorerà. Non c’è mai una soluzione precotta, ogni spettacolo vive e cambia fino all’ultima recita. Ho messo in scena in Russia La dodicesima notte 14 anni fa ma ancora faccio modifiche e gli attori ne sono felici: i miei spettacoli vivono e respirano insieme col pubblico». Come definisce questo teatro mai-finito?
«Il teatro senza idee, politica, filosofia, è noioso, ma il teatro senza persone non è neppure teatro. Ogni cosa è mediata dalla gente: people, people, people. L’idea deve avere sangue ma poi noi siamo la carne». È attuale questa «Tragedia» dove sono tutti corrotti, violenti e stupratori?
«Viviamo tempi pericolosi. Gli artisti dicono cose che i politici non osano, non parlano della distruzione globale, devono insistere sull’innocenza di chi li vota. Ciascuno ha la capacità di distruggere e creare ma la vita è stancante perché utilizziamo il giudizio per evitare le urgenze distruttive, talvolta truccate da intenzioni caritatevoli».
Quale lezione trae lo spettatore?
«Spero nessuna. Non è il nostro lavoro dare lezioni, lo fanno già preti e politici. Buona fortuna». Allora qual è il contributo del teatro oggi?
«Il politico, non l’artista deve dare soluzioni. Ma per il primo il cattivo è sempre l’altro, agli artisti spetta il compito di ricordarci che siamo tutti umani e mostri». Per esempio?
«Se qualcuno uccidesse il mio partner Nick, io vorrei che morisse, ma dovrei proteggere la società e me stesso dai peggiori istinti: è la civiltà, bellezza. Il vero disastro accade quando arriva la morale, cioè la castrazione dell’Es. Bisogna accettare rabbia e voglia di vendetta, che esistono, ma senza assecondarle. All’origine della pazzia c’è la lotta dei contrasti: lo chieda a Sofocle».
Ronconi mise in scena «La tragedia del vendicatore» solo con donne: allestimento con difficoltà tecnico-scenografiche.
«Luca era un mio grande amico, ho passato un weekend fantastico nella scuola di Santa Cristina e quest’idea mi pare affascinante». Sarà fedele alle regole del teatro elisabettiano?
«Ma l’interesse per gli elisabettiani sta proprio nel fatto che erano anarchici, anticiparono Illuminismo e Romanticismo e tutte le arti che volevano farci parere migliori. La loro mancanza di finzioni ha fatto scorgere la verità distruttiva che poi il XX secolo ha messo in pratica. L’arte indica come stabilire Bene e Male, ed è perciò che gli elisabettiani sono attuali. Anarchici nella forma, nella struttura, nella sensibilità, gettano un ponte verso noi: vedono dal vero la nostra natura che per secoli altri hanno camuffato».
Ci parli del suo manuale «The actor and the target» (L’attore e il bersaglio): di quale bersaglio si tratta?
«Pubblicato in Russia nel 2001, è un testo scritto per la paura degli attori, spiegandone le ragioni, perché recitare vuol dire patteggiare con la propria intimità, l’amore, cose che ancora fanno paura. Attenzione, c’è un enigma: bisogna distinguere il recitare dal fingere, due funzioni sempre attive sul palco e nella vita. Sono felice di essere europeo e la Brexit ci causa molta angoscia». I suoi autori preferiti?
«Cechov, Sofocle e Shakespeare, tutti ossessionati dal senso della perdita e dalla delusione di se stessi». Si sente europeo?
«Altroché. Grazie a Strehler, che quando fondò Théâtre de l’Europe mi chiese di unirmi; poi conobbi e divenni amico di Escobar e Ronconi, sono venuto al Piccolo molte volte con la mia compagnia, così mi sembra ora naturale collaborare con loro. Lavorare non significa per forza condividere gli stessi scopi ma conoscere, aver rapporti con le persone, condividere. La cosa più importante del teatro è la vita. In Russia mi trovo benissimo, accadrà anche in Italia: la paura è di ingrassare».