Corriere della Sera - La Lettura
Il vizio di ridurre l’Onnipotente a protettore degli affari nostri
Comunemente, il secondo comandamento viene associato al divieto di bestemmiare, imprecare, utilizzare senza il dovuto rispetto il nome di Dio. Se così fosse, il grido di Gesù sulla croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato») costituirebbe una violazione del precetto mosaico, non invece il momento supremo dello svuotamento di sé del Figlio di Dio, da cui si origina la nostra salvezza. In realtà, il secondo comandamento riguarda il giuramento, che nel mondo biblico aveva valore in quanto fatto invo- cando Dio a garante e punitore dello spergiuro, come chiarisce la spiegazione apposta al divieto: «Perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano». Ripensarne il significato, dunque, invita a riflettere su cosa implichi assumere un impegno in pubblico — tale era infatti il significato del giuramento nel mondo antico — e specularmente sull’opportunità di addurre motivazioni di carattere religioso per legittimare le proprie azioni, pubbliche o private che siano.
Il primo aspetto non riguarda solo i credenti. Tramontato il terrore premoderno per l’intervento di Dio a punire lo spergiuro e ridottosi il giuramento a un simulacro poco più che simbolico in circostanze eccezionali (di fronte a un tribunale, per l’assunzione di incarichi particolarmente elevati, per vestire una divisa…), il secondo comandamento dovrebbe richiamare ciascuno alla massima coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa: se pure ormai la sanzione divina sembra essersi ritratta, il nostro agire non riguarda solo noi e la nostra, sempre più flebile, coscienza, ma ci colloca in una condizione di responsabilità di fronte al prossimo, da cui non possiamo ritrarci a nostro piacimento.
Per chi crede, poi, il monito di non nominare il nome di Dio impedisce di piegare il messaggio evangelico, l’interpretazione del testo biblico o il richiamo alla fede e alla tradizione della Chiesa al servizio di strategie, azioni, opportunità che risultano invece proiezioni del proprio io, individuale o di gruppo. Indubbiamente, non è più il tempo (non da molto, però!) del motto «Dio con noi» sulle cinture e sulle spade degli eserciti. E tuttavia, in un’epoca secolarizzata, si è paradossalmente fatta più insidiosa la tentazione di invocare Dio per rinsaldare, anche all’interno della Chiesa, identità, culture e interessi consolidati, dimenticando che il compito del cristiano è quello di annunciare il Vangelo, non di tenersi Dio dalla propria parte.
Non nominare il nome di Dio invano