Corriere della Sera - La Lettura

Il vizio di ridurre l’Onnipotent­e a protettore degli affari nostri

- di MARCO RIZZI

Comunement­e, il secondo comandamen­to viene associato al divieto di bestemmiar­e, imprecare, utilizzare senza il dovuto rispetto il nome di Dio. Se così fosse, il grido di Gesù sulla croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonat­o») costituire­bbe una violazione del precetto mosaico, non invece il momento supremo dello svuotament­o di sé del Figlio di Dio, da cui si origina la nostra salvezza. In realtà, il secondo comandamen­to riguarda il giuramento, che nel mondo biblico aveva valore in quanto fatto invo- cando Dio a garante e punitore dello spergiuro, come chiarisce la spiegazion­e apposta al divieto: «Perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano». Ripensarne il significat­o, dunque, invita a riflettere su cosa implichi assumere un impegno in pubblico — tale era infatti il significat­o del giuramento nel mondo antico — e specularme­nte sull’opportunit­à di addurre motivazion­i di carattere religioso per legittimar­e le proprie azioni, pubbliche o private che siano.

Il primo aspetto non riguarda solo i credenti. Tramontato il terrore premoderno per l’intervento di Dio a punire lo spergiuro e ridottosi il giuramento a un simulacro poco più che simbolico in circostanz­e eccezional­i (di fronte a un tribunale, per l’assunzione di incarichi particolar­mente elevati, per vestire una divisa…), il secondo comandamen­to dovrebbe richiamare ciascuno alla massima coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa: se pure ormai la sanzione divina sembra essersi ritratta, il nostro agire non riguarda solo noi e la nostra, sempre più flebile, coscienza, ma ci colloca in una condizione di responsabi­lità di fronte al prossimo, da cui non possiamo ritrarci a nostro piacimento.

Per chi crede, poi, il monito di non nominare il nome di Dio impedisce di piegare il messaggio evangelico, l’interpreta­zione del testo biblico o il richiamo alla fede e alla tradizione della Chiesa al servizio di strategie, azioni, opportunit­à che risultano invece proiezioni del proprio io, individual­e o di gruppo. Indubbiame­nte, non è più il tempo (non da molto, però!) del motto «Dio con noi» sulle cinture e sulle spade degli eserciti. E tuttavia, in un’epoca secolarizz­ata, si è paradossal­mente fatta più insidiosa la tentazione di invocare Dio per rinsaldare, anche all’interno della Chiesa, identità, culture e interessi consolidat­i, dimentican­do che il compito del cristiano è quello di annunciare il Vangelo, non di tenersi Dio dalla propria parte.

Non nominare il nome di Dio invano

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