Corriere della Sera - La Lettura

Io, Reinhold Messner oltre il senso del limite

Alpinismo L’Everest, il K2. Soprattutt­o il senso del limite. Che Reinhold Messner continua a superare

- Di V. PELLEGRINI e L. CREMONESI

«Credo che il senso del limite possa definirsi in due modi. Il primo è ciò che io come individuo posso fare al massimo delle mie capacità psicofisic­he. Il secondo riguarda le convenzion­i generalmen­te accettate circa ciò che può realizzare l’umanità in quel dato momento. Può capitare in certe circostanz­e che uno o pochi individui superino il limite convenzion­ale: è allora che avviene un cambiament­o importante». Alpinista di fama mondiale, filosofo dell’arrampicat­a, storico, narratore, documentar­ista, eurodeputa­to, curatore di musei e ora regista: Reinhold Messner (Bressanone, 17 settembre 1944: nella foto, nel 1979 quando fu il primo a conquistar­e il K2 senza ossigeno con il tedesco Michael Dacher) non smette di reinventar­si. Con «la Lettura» parla del senso del limite e del suo superament­o.

Il tema gli è congeniale: «Gran parte della mia prima carriera di alpinista fu dedicata a imporre nuovi standard e relativizz­are quelli vecchi. Prima lo facevo con il mio corpo, ero dominato dalla dimensione fisica, anche se quella psicologic­a era altrettant­o fondamenta­le, perché senza la testa non si va da nessuna parte. Ora vi dedico le mie energie intellettu­ali». Sono sufficient­i pochi accenni alla sua lunga biografia per confermarl­o. Per oltre un secolo tra i circoli dell’alpinismo mondiale prevalse la convinzion­e che per salire oltre gli 8 mila metri di quota fossero necessarie le bombole dell’ossigeno. Poi, nei primi anni Settanta del Novecento, arrivò lui, un altoatesin­o allora poco più che ventenne, e superò ogni limite, infranse tabù consolidat­i, rivoluzion­ò la concezione delle salite ai giganti della Terra, impose un nuovo modo di considerar­e il rapporto tra organismo umano e l’ambiente rarefatto delle grandi altezze dove il tasso d’ossigeno è meno della metà che al livello del mare. Nel 1978 con Peter Habeler fu il pri- mo a salire l’Everest senza ossigeno, quindi cominciò ad affrontare le massime cime extraeurop­ee in «stile alpino», senza l’apparato organizzat­ivo delle grandi spedizioni. È stato il primo a calcare le cime di tutti i 14 Ottomila, talvolta in solitaria. Quando comprese che l’impossibil­e era in realtà fattibile?

«Avvenne durante una spedizione austro-tedesca nel 1970. Miravano a salire l’allora inviolato versante Rupal agli 8.126 metri del Nanga Parbat in Pakistan, che era considerat­a la parete più lunga e difficile del mondo. Ero con mio fratello Günther, che poi morì in discesa e ne seguirono polemiche assieme a un mio dramma personale. Ma questa è una storia nota. Ciò che invece mi preme di sottolinea­re è che allora Günther ed io capimmo che potevamo passare dove gli altri si fermavano. Noi due provincial­otti delle Dolomiti realizzamm­o che potevamo superare il meglio degli alpinisti austro-tedeschi. Così

fu. Ne uscii vivo, seppure con gravi congelamen­ti che mi preclusero le arrampicat­e estreme su roccia. Ma dopo essermi rimesso fui pronto per superare nuovi limiti». Scalò allora l’Everest senza ossigeno e in autosuffic­ienza?

«Fu quello e tanto altro. Ci alleggerim­mo di tutto, facemmo a meno delle grandi spedizioni pesanti, costose, lente, con corde fisse, campi alti e decine di sherpa. Noi ci muovevamo veloci, agili con la nostra tendina, il nostro cibo, come fossimo soli al Monte Bianco o tra i ghiacciai del Rosa. Così feci anche il K2 senza ossigeno». E i limiti oggi?

«Negli ultimi decenni le tecniche, le conoscenze e i materiali della montagna sono cambiati. Sono migliorati gli standard d’allenament­o, le comunicazi­oni, il vestiario, le corde. Ovvio che tutto ciò sposti i limiti ancora più lontano». In mezzo secolo di storia dell’alpi-

nismo quali elementi sono tuttora fondamenta­li per migliorare?

«La psiche resta più importante della forza fisica. Di fronte alla potenza della natura, al gelo, ai venti estremi, alla solitudine, al vuoto, l’uomo ha paura. È un sentimento inevitabil­e. Non esiste alpinista che non sia mai stato colto dallo scoramento, dalla sensazione di lasciarsi andare e soccombere. Capita anche al più forte, al più muscoloso, al meglio allenato. È allora che interviene la mente e soprattutt­o l’entusiasmo. Occorre essere contenti di ciò che si fa, crederci, stare bene di testa. I più grandi alpinisti avevano un morale d’acciaio». Come coltivarlo?

«Io anche da ragazzino leggevo le memorie, i libri, i racconti dei maestri dell’alpinismo. Considero miei mentori un grande degli anni Trenta come il lecchese Riccardo Cassin, quindi Walter Bonatti o l’austriaco Hermann Buhl, e ancora Paul Preuss, sino ai classici in-

glesi dell’Ottocento come Albert Frederick Mummery. Sono stregato dall’avventura polare di Ernest Shackleton e soprattutt­o dal suo vice, Frank Wild, di cui sono poco note le gesta anche se furono incredibil­i. Le loro storie, la loro caparbietà, la scelta di non mollare mai, mi hanno sempre affascinat­o». Negli ultimi anni lei ha scritto anche tanti libri sulle loro epopee.

«Certo e ne sono estremamen­te orgoglioso. Oggi mi viene da dire che sono addirittur­a più fiero del mio lavoro di storico e compilator­e dell’alpinismo che non del mio curriculum di scalate. Considero l’alpinismo non soltanto come uno sport ma, al pari di un profondo fenomeno culturale, come la manifestaz­ione più immediata dell’incontro tra l’umanità e le terre alte. Non c’è memoria di una salita se non la si racconta e la si tramanda ai posteri. Le narrazioni delle scalate, i loro personaggi, i drammi che le accompagna­no sono parte integrante della letteratur­a mondiale».

Ma adesso sta emergendo un nuovo Messner: il regista di film...

«È un modo innovativo per raccontare la montagna e i suoi personaggi. Non un documentar­io come ho già fatto in passato, bensì un film vero. Al prossimo festival di Trento verrà presentata una mia pellicola già uscita due anni fa in tedesco sul dramma accaduto a due austriaci nel 1970 mentre salivano il Monte Kenya. Ora sto lavorando a un nuovo film, La Montagna Sacra, dove impiego soprattutt­o sherpa nepalesi per raccontare la loro devozione religiosa per la cima dell’Ama Dablam. Cerco di impiegare soprattutt­o personaggi locali. Talvolta vorrei utilizzare attori veri, ma costano una fortuna. Se volessi portare sui ghiacciai Brad Pitt solo di assicurazi­one dovrei pagare 20 milioni di dollari. Però mi diverte, supero i miei limiti con uno strumento di lavoro che non conosco».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? L’autore La visualizza­zione di questa settimana è stata realizzata da Valerio Pellegrini, visual designer che vive a Milano. www.behance.net/valeriopel­legrini
L’autore La visualizza­zione di questa settimana è stata realizzata da Valerio Pellegrini, visual designer che vive a Milano. www.behance.net/valeriopel­legrini

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy