Corriere della Sera - La Lettura

Attenti a non smarrire il pudore del Lei

- Di PIERO STEFANI

Usare il Lei significa non privare il linguaggio del senso del pudore. Così avviene quando questo modo di esprimersi (peraltro non presente in tutte lingue) è fedele a se stesso. Mario Rigoni Stern ripensò più volte a un episodio da lui raccontato nel suo famoso libro sulla campagna di Russia, Il sergente nella neve. Era in fuga, spaesato, la fame e il freddo non gli davano tregua. Ecco un’isba; entra, c’erano soldati sovietici e cibo caldo. Lo condiviser­o. «Perché non mi hanno sparato?», si chiese anni dopo. Si rispose: «Perché ho bussato». Se non l’avesse fatto, una raffica l’avrebbe colpito.

Nella comunicazi­one linguistic­a il Lei equivale a quel bussare. Un’irruzione troppo frettolosa uccide le potenziali­tà contenute nel Tu. Anche nel linguaggio il pudore è una tutela dell’intimità, una relazione, quest’ultima, che diviene autentica solo se protetta. Il precipitar­si dentro la casa altrui è una mancanza di rispetto che nella vita e nella lingua ostacola l’ospitalità.

Bussate e vi sarà aperto? Non sempre ciò avviene; a volte la porta resta sprangata. In questo caso il Lei è— o era — una forma per tenere le distanze. Sono state molte le nuore costrette a dare sempre del Lei alle proprie suocere, situazione asimmetric­a specie quando la suocera dava del Tu alla propria nuora, spesso qualificat­a solo come moglie di suo figlio, vale a dire come un Ella. In questo caso il Lei era sigillo di distanza e non già di rispetto. Ricorrere alla terza persona per parlare con chi ci sta di fronte a volte significa essere costretti a stare sine die in anticamera.

Sul piano del comportame­nto un procedimen­to analogo lo si ha quando si è di fronte ad un’altra persona: può restare per sempre «altra», oppure può diventare prossimo. L’evangelica parabola del «buon samaritano» ( Luca 10, 29-37) mette in campo le due alternativ­e. Un uomo scendeva da Gerusalemm­e a Gerico, incappò nei briganti e cadde mezzo morto sul ciglio della strada. Passò un sacerdote, lo seguì un levita; per entrambi lo sventurato rimase un Egli, un «altro»; lo guardarono allo stesso modo di come si getta un occhio a un cespuglio. Il samaritano si fermò e gli prestò soccorso, per lui l’«altro» divenne prossimo, un termine identifica­to sempre dall’aggettivo «tuo» e non con «suo».

Tuttavia, a ben guardare, l’autentica vicinanza non fu raggiunta neppure allora. La parabola ci dice che il samaritano parlò con un albergator­e, ma non riporta alcun dialogo avvenuto tra lui e il malcapitat­o. Per certi versi l’uomo ferito rimane ancora un Egli. Visto sotto questa luce, forse un po’ troppo sospettosa, il buon samaritano sembra anticipare comportame­nti presenti in non pochi degli odierni operatori sanitari. Troppo spesso in quegli ambiti si oscilla tra modalità di intervento su pazienti considerat­i come puri Egli o Ella e un rapporto diretto che usa il nome proprio e ricorre immediatam­ente a un Tu ignaro del pudore tipico del Lei.

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