Corriere della Sera - La Lettura
IL CORANO DI CONFUCIO
Quando nel luglio 2009 a Urumqi, in Xinjiang, bande di uiguri (la popolazione turcofona e musulmana della regione) si scatenarono in un pogrom anticinese, tra le vittime della loro violenza ci furono anche commercianti di etnia hui, gruppo sinizzato di religione islamica. Musulmani contro musulmani, dunque: gli estremisti uiguri odiavano gli hui immigrati in Xinjiang non meno dei coloni han, l’etnia maggioritaria della Repubblica popolare. Prova empirica di quanto la questione dell’islam in Cina sfugga a semplificazioni e si sviluppi nell’intreccio fra aspetti religiosi, etnici e anche economici (il caso del Xinjiang, appunto, è esemplare). Esistono oggi in Cina circa 30 mila moschee e l’islam è stato incluso, già da Mao Zedong, tra le cinque religioni ricono- sciute dalla Stato (con buddhismo, taoismo, cattolicesimo e cristianesimo protestante). E l’evoluzione del ruolo dei musulmani nell’«impero di mezzo», sostiene Francesca Rosati in L’Islam in Cina. Dalle origini alla Repubblica popolare (L’asino d’oro, pp. 292, € 23), è tutt’altro che un fenomeno marginale: rivela l’attitudine del potere comunista a «considerare la fede come un “tratto” etnico» in un contesto — scrive l’autrice— di «etnicizzazione dello Stato» con la maggioranza han al vertice e la cornice di un «modello etico confucianosocialista». Tutto è ancora in movimento, però, perché «il passaggio dallo status di musulmani in Cina a quello di musulmani cinesi è durato oltre 12 secoli e continua ancora oggi». Meno Mao, più Maometto.