Corriere della Sera - La Lettura
Il Raffaello innamorato
Romanzi storici Giovanni Montanaro restituisce la passione che legò il grande artista a Margherita Luti detta Ghita, la Fornarina, e lo fa attraverso la voce di lei, la protagonista
Ancora una volta è all’insegna dell’alternanza tra continuità e discontinuità Guardami negli
occhi, il romanzo con cui Giovanni Montanaro, dopo l’ambientazione contemporanea di Tommaso
sa le stelle, in cui s’affacciava anche il tema dei migranti, torna al filone della creatività artistica di La croce Honninfjord, che si muove tra IX secolo e 1988, così come di Le
conseguenze, tra ritrattistica del XVI secolo e giorni nostri, e di Tutti i colori del
mondo, che narra invece con linearità l’incontro a Gheel tra Teresa Senzasogni e un giovane, spaesato van Gogh.
In Guardami negli occhi si torna dunque a una storia d’amore d’ambito artistico nella Roma nel secondo decennio del Cinquecento, narrata con discontinuità temporale, articolandosi il romanzo in un prologo ed epilogo dei giorni nostri che vede lo scrittore aggirarsi tra le strade romane teatro di quel grande amore, e il lungo corpo centrale, a sua volta articolato su due diversi piani temporali. Perché l’io narrante è quello di Margherita Luti, detta Ghita, oggi nota come la Fornarina: in un racconto che si articola tra il presente che la vede consumarsi nel monastero di Sant’Apollonia, nel quale, alla morte di Raffaello, s’è rinchiusa sottraendosi al mondo, per vivere solo del ricordo di lui; e il recente passato di quel ricordo, nel quale rivive la sua storia d’amore. Un ambito, quello artistico, nel quale tra l’altro Montanaro è venuto affinandosi grazie anche a diversi interventi su questo quotidiano, tra i quali mi piace segnalare, proprio per la vicinanza all’argomento, quello dedicato alle figure femminili di Manet, e segnatamente a quegli «occhi che ti guardano» di Berthe Morisot con un mazzo di violette e, per l’affinità di tono melanconicamente memoriale con questo romanzo, il racconto in cui fa parlare Bernardo Bellotto detto il Canaletto. Quanto al legame di Guardami negli oc
chi con Tutti i colori del mondo, oltre alla scelta di affidarsi a un io narrante — ove però l’abdicazione allo stile epistolare per un libero muoversi nel ricordo del pensiero la s c i a maggior l i ber t à e sc i ol te zz a espressiva —, sta pure da parte dei due artisti il superamento dell’impossibilità di esprimersi grazie a una figura femminile: figure accostate anche nel loro medesimo destino di «clausura».
Tutto ruota attorno allo sguardo e a un anello. Perché lo sguardo, quegli «occhi sempre pieni di sorriso» di Ghita che s’incrociano con quelli «scuri, onesti» di Raffaello, è quanto ha segnato l’inizio d’una storia d’amore assoluto; tanto più significativi se si considera che gli occhi sono l’elemento con cui Montanaro caratterizza tutti i personaggi del romanzo, dal padre Francesco, alle suore, ai nobili romani, ai popolani. Quanto all’anello, «in oro, con una piccola pietra blu, un lapislazzuli», tanto minuscolo da non sembrare «neanche una fede e che «non ho mai potuto mostrare», è la sola sopravvivenza del passato che, ora che ha rinunciato a tutto per chiudersi in un monastero, le consente comunque di sentire ancora vicino, tutte le notti, «lui», con quei suoi «capelli neri, le gambe sottili, la magrezza di chi non invecchia mai del tutto», anche se «non apre mai gli occhi». Un anello che è anche un mistero artistico: fatto qui scomparire dall’allievo Giulio Romano dalla tela col celebre ritratto di Ghita, forsennatamente terminato da Raffaello quasi in punto di morte, per salvare tutti loro e il quadro stesso dalla rabbia del cardinal Bibbiena, essendo quell’anello il segno d’un matrimonio celebrato segretamente; salvo riaffacciarsi sulla tela, all’anulare sinistro, anni dopo.
Una storia d’amore che Montanaro reg- ge con maestria ed e qui l i br i o, s e nza ce d i men t i a l r o - manzesco e al patetico, perché fatta rivivere dall’interno da Ghita; affidandola a una scrittura di notevole limpidezza, insieme essenziale e pienamente sufficiente a se stessa, nel pudore con cui è raccontata: e che trova nel ritmo dei pensieri e dei sentimenti di Ghita una sapiente calibrazione. Una storia che si dipana per i pochi anni in cui, neppur quindicenne, «uscita dalla bottega, sudata per il caldo del forno: sporca, i capelli in disordine e il volto arrossato dal calore delle braci», Ghita s ’imbatte casualmente in quell’«uomo, ben più grande di me, ma aveva ancora la magrezza, la purezza della gioventù» che «indossava una veste di seta nera, elegantissima, ricca, e teneva un berretto appena inclinato, a mostrare la fronte»; quel Raffaello il cui nome compare sempre e solo nella voce di Montanaro, nel prologo e nell’epilogo, perché per Ghita il pittore è sempre e solo «lui», tanta è l’intensità del suo rivivere quel rapporto.
Un incontro fatale per il «pittore, conteso da tutti i cardinali e i nobiluomini di Roma», che da quel momento non riesce più a dipingere, avvertendo in sé l’impotenza di rappresentare un viso femminile. Un amore intenso e tormentato, osteggiato dal potere, dalla famiglia e dai suoi stessi simili, vissuto di notte, di nascosto, e che la rende ogni giorno più forte. Una storia in costante, ben calibrata crescita di tensione; insieme struggente ed emozionante; disegnata con raffinatezza non solo nel rendere il clima del tempo, del quartiere popolare così come dell’interno buio del monastero, ma pure la finezza psicologica dei diversi personaggi, protagonisti e non (si pensi in particolare alla cieca suor Agnese).