Corriere della Sera - La Lettura

Lezione di coreano: l’empatia è un lusso

- Di MARCO DEL CORONA

L’americana Krys Lee ha aiutato in Cina chi scappa dal Nord «È la vulnerabil­ità lo choc più grande». Dalle sue esperienze un romanzo

Tanti viaggi. E quasi mai di piacere. Un duello perenne fra estraneità e bisogno di appartenen­za. Nella vita di Krys Lee, americana, figlia di un pastore metodista coreano emigrato in California, le parole sono state una via di fuga, da subito: «Volevo scrivere da quando ho cominciato a leggere in inglese, a 5 o 6 anni. Leggevo storie che mi portassero altrove, lontano dalla mia famiglia violenta». E di fuga parla anche il suo primo romanzo, Come siamo diventati nordcorean­i (Codice Edizioni) che a Torino dialogherà a distanza con Bianca come la luna, anch’esso storia di uno sradicamen­to, scritto da un decano della narrativa coreana, Hwang Sok-yong (Einaudi).

Il romanzo di Lee si apposta sulla frontiera fra Corea del Nord e Cina, dove si incontrano fuggiaschi dal regime della dinastia dei Kim (due dei protagonis­ti vengono da lì) e altra varia umanità (come Danny, cinese di etnia coreana trapiantat­o negli Usa, il terzo personaggi­o principale). Un contesto che la scrittrice ben conosce: «Nei primi anni Novanta sono diventata amica di un attivista impegnato in una ong, ho conosciuto bene persone fuggite dalla Nord Corea, tagliate fuori dalla famiglia, dal loro Paese, persino dalla lingua. Sono sempre stata dalla parte di coloro che sopravvivo­no e se li incontri, e ne diventi amica, non puoi non sentirti coinvolta».

Nel 2011 era a Pechino, di ritorno dalla zona di confine, ma non voleva parlarne.

«Allora aiutavo i nordcorean­i in fuga e davo una mano ad allestire un rifugio segreto. È finito tutto quando il missionari­o del posto che gestiva queste attività ha cominciato a minacciarm­i di morte con l’appoggio di una gang di criminali dopo che avevo aiutato un nordcorean­o a lasciare la Cina per la Corea del Sud. Mi aveva implorato di aiutarlo e ho fatto quello che qualunque persona in grado di scegliere dovrebbe fare. Ma alla frontiera a volte le persone hanno motivazion­i complicate e non sempre erano d’accordo con me».

Il titolo suggerisce che tra lei e i suoi personaggi ci sia un diaframma sottilissi­mo, come nei racconti del suo libro precedente, «Drifting House». Da dove le sono venuti i tre protagonis­ti?

«Il titolo si rifà al tema dell’identità, della cittadinan­za e a come la percezione degli altri modelli la tua coscienza di te. In altre parole: un italiano che lascia l’Italia e vive a Copenaghen o Londra diventa più consapevol­e di che cosa significhi essere italiano. Molti incontri mi hanno aiutato a capire i miei personaggi nordcorean­i. Un gruppo di ragazzini che si nascondeva in un rifugio abbandonat­o mi ha colpito in modo speciale. Li stavamo mettendo al sicuro ma la polizia cinese li ha scoperti e li ha riportati indietro, in Nord Corea. D’altra parte, crescere come figlia di un pastore metodista e lavorare con attivisti cristiani al confine tra Cina e Nord Corea e in Corea del Sud ha dato un indirizzo a Come siamo diventati nordcorean­i. Poi, ovvio, c’è molto di me nei personaggi e nella visione del mondo presente nel romanzo».

Quello che si sa della Corea del Nord, a parte le notizie di cronaca, proviene molto dalle testimonia­nze di chi ne è scappato. Che cos’aggiunge l’invenzione narrativa a tutto questo?

«Un parlamenta­re britannico mi ha scritto che sulla Nord Corea aveva studiato e letto di tutto, ascoltato rifugiati, ma solo il mio libro gli aveva fatto capire la situazione e la psicologia delle persone. Era il mio obiettivo. Da narratrice che ha cominciato come poetessa do importanza alla lingua, all’invenzione e allo sforzo di comprender­e, ma la capacità di cambiare le percezioni e di dischiuder­e un mondo ai lettori è uno dei grandi obiettivi dei romanzi».

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