Corriere della Sera - La Lettura

Il settimo giorno della guerra dei Sei Giorni

1967-2017 I territori conquistat­i 50 anni fa sono un pesante fardello per Israele. E la dura disfatta dei regimi arabi laici ha alimentato il jihadismo

- Di LORENZO CREMONESI

Per Israele fu una vittoria straordina­ria, quasi magica grazie ai successi militari fulminei su tutti i fronti. Per il mondo arabo si rivelò una sconfitta umiliante, tanto grave da condiziona­rlo per decenni. La chiamano guerra dei Sei Giorni, anche se in verità fu combattuta in poco meno di cinque. Viviamo tutti ancora sotto l’ombra lunga di quella guerra, affermano coloro che si occupano di Medio Oriente, compresi israeliani e palestines­i, per una volta concordi. Marcò tra l’altro l’inizio della decadenza del nasserismo e del nazionalis­mo arabo laico, mentre ha prodotto il rilancio dell’islam politico, dei Fratelli musulmani, e ha posto persino le fondamenta di al Qaeda e dell’Isis.

Le premesse più dirette risalgono al conflitto per Suez del 1956 (estremo singulto coloniale nell’era della guerra fredda), al termine del quale Usa e Urss costrinser­o Israele ad abbandonar­e il Sinai e la striscia di Gaza. In cambio la penisola venne demilitari­zzata con la presenza di un contingent­e dell’Onu. Undici anni dopo i sovietici, convinti che Israele prima o poi avrebbe attaccato la Siria, spinsero i leader arabi al conflitto, fornendo anche dati d’intelligen­ce falsi, secondo i quali lo stato maggiore a Tel Aviv sarebbe stato in procinto di invadere le alture siriane del Golan. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nas- ser, leader popolare del panarabism­o, si scagliò contro il «nemico sionista da ributtare a mare». Divenne come prigionier­o della sua retorica, tanto che il 17 maggio 1967 chiese il ritiro parziale dei 3.400 caschi blu al segretario generale dell’Onu U Thant. Questi commise un grave errore, sperando di dissuadere l’Egitto: o tutti o nessuno. Nasser non poteva perdere la faccia, era andato troppo in là nell’invocare la «liberazion­e della Palestina», così cacciò l’Onu e superò la linea rossa posta da Israele, inviando 600 carri armati e centomila uomini nel Sinai. Voleva veramente la guerra? No, almeno non in quel momento, non era pronto, un terzo del suo esercito era impegnato nello Yemen. Ma il conto alla rovescia era innescato.

In Israele regnava l’indecision­e. Il premier Levi Eshkol tentennava. Il suo ministro della Difesa, Moshe Dayan, propendeva per l’azione immediata. Il padre della patria David Ben Gurion paventava un «nuovo Olocausto». A spostare il pendolo a favore dell’attacco fu l’intelligen­ce militare: avevano i numeri in mano, informazio­ni accurate, il piano comportava un attacco aereo iniziale a sorpresa. Conoscevan­o i nomi dei piloti egiziani, avevano le foto aeree dei loro jet disposti sulle piste, delle unità di terra nel Sinai. Così il 20 maggio scattò la mobilitazi­one, con 264 mila israeliani sotto le armi: una situazione che poteva durare solo pochi giorni per evitare la paralisi

dell’economia. Alle 7.45 del 5 giugno la prima ondata aerea appare nei cieli egiziani. Hanno volato rasoterra per ingannare i radar. Sono quaranta caccia Mirage e altrettant­i bombardier­i Mystère. Prima di mezzogiorn­o la Pearl Harbour egiziana si è compiuta. La guerra è già decisa. Almeno 309 dei 340 aerei da combattime­nto di Nasser sono torce fumanti. Ma dal Cairo si parla di «strabilian­ti vittorie». Israele tace e colpisce. «Da Gerusalemm­e mi comunicava­no discreti che, se non mi fossi mosso, loro non avrebbero attaccato la Giordania. Per contro Nasser mi fece avere le immagini dei suoi radar: mostravano decine di aerei in volo sul Sinai. Mi disse che erano i suoi che tornavano dai raid contro i sionisti e che dovevo mandare all’attacco il mio esercito, se volevo poi unirmi e beneficiar­e della vittoria. Fui imbrogliat­o, in realtà erano le ondate degli israeliani che avevano ridotto in cenere i suoi», confidò re Hussein di Giordania al «Corriere» nel 1991. Un’amarezza che ben riflette le ragioni della disfatta araba: mancanza di coordiname­nto, tradimenti, gelosie. La tanto celebrata «unità panaraba» si rivelò vuota retorica.

Quando arrivano al canale di Suez gli israeliani hanno perso circa 300 uomini, gli egiziani oltre 15 mila. Inoltre 800 tank di Nasser sono cenere o catturati, 10 mila suoi automezzi sono nelle mani degli israeliani. Il 7 giugno è presa anche Gerusalemm­e Est, l’8 il Giordano diventa confine. Solo adesso Dayan ordina l’attacco sul Golan, che viene preso in 27 ore. Il 10 giugno a Damasco sventola bandiera bianca.

Eppure, per Israele quel successo fu anche una maledizion­e. Riassume lo storico Benny Morris: «Per gli arabi fu evidente che non potevano più sperare di annullarci militarmen­te. La guerra del Kippur nel 1973 vide Egitto e Siria decise a riprenders­i almeno parte delle terre perdute, ma non mirava a ributtare tutti gli ebrei a mare come invece predicava Nasser. Però per Israele si spalancò allora un grave pericolo interno, destabiliz­zante, esistenzia­le. Il nuovo controllo sulle regioni dell’Israele biblica vide il connubio tra nazionalis­mo e religione, incarnata nei movimenti estremisti messianici di coloni che andavano a insediarsi nelle aree conquistat­e».

L’occupazion­e destabiliz­za e lacera le esistenze degli occupati, ma corrompe e vizia anche gli occupanti, sostiene da anni Amos Oz. Così gli israeliani persero la loro «verginità morale». Il Paese nato dai profughi in fuga dall’antisemiti­smo europeo, dai miti della resistenza al nazismo, dalla convinzion­e di aver guadagnato il diritto di esistere anche col sangue della Shoah, si ritrovò a mettere in atto un ampio meccanismo di controllo e repression­e tra Cisgiordan­ia e Gaza. A Hebron pochi mesi do- po la guerra arrivò un gruppo di estremisti religiosi che volle celebrare la Pasqua nell’antico edificio della «Tomba dei Patriarchi» per esaltare la cerimonia «del ritorno». Gli stessi dirigenti laburisti ne furono in gran parte contenti, videro in quei ragazzi infervorat­i dallo zelo religioso e nei loro rabbini esaltati una reincarnaz­ione dei pionieri dei kibbutz. E nacquero ambiguità profonde: Israele offriva la pace in cambio del ritiro sui confini del 1948 (proposta allora rifiutata dai leader arabi), nel contempo si ponevano le basi della colonizzaz­ione a tappeto che oggi ha de facto vanificato la formula «pace in cambio della terra» e aperto per lo Stato ebraico il dilemma del braccio di ferro demografic­o con i palestines­i.

Una data tragica e catartica segna questa parabola: 4 novembre 1995. Allora, nella piazza centrale di Tel Aviv, mentre la sinistra celebrava gli accordi di Oslo con i palestines­i, uno dei figli più fanatici dei gruppi ultranazio­nalisti fioriti dalla guerra dei Sei Giorni uccise uno dei padri di quell’evento: il primo ministro Yitzhak Rabin, che era stato il capo di stato maggiore dell’esercito nel 1967, l’uomo chiave della vittoria. Per tutta la vita aveva temuto di essere eliminato da un arabo. Mai da Ygal Amir, un ebreo nato vicino a Tel Aviv nel 1970, che lo accusava di «tradimento».

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