Corriere della Sera - La Lettura
Li cancello, sì, li leggo. E li scrivo
L’artista che ha amato a tal punto i libri da volerli cancellare, dimostrando «la possibilità della parola umana di sopravvivere in un’epoca in cui comunicare è diventato impossibile» è, prima di tutto, un letterato. «Nasco come poeta» dice Emilio Isgrò (che il 6 ottobre compirà ottant’anni) nel suo studio milanese in una palazzina in zona Rovereto che vorrebbe diventasse una fondazione. La grande retrospettiva di Milano che lo scorso anno ha portato in tre sedi oltre 200 opere (Palazzo Reale, caveau delle Gallerie d’Italia e Casa Manzoni), l’acquisizione da parte del Centre Pompidou di tre suoi lavori, le mostre prima a Londra e ora a Parigi, la collocazione davanti alla Triennale del Seme dell’Altissimo sono il sigillo di una ricerca artistica iniziata negli anni Sessanta e ora riconosciuta a livello internazionale.
Un percorso coerente che ha fatto quasi dimenticare il côté letterario di Isgrò, forse con la complicità dello stesso artista: «Il pericolo — dice — era quello di essere considerato il classico “scrittore che dipinge”». Ora però sta riemergendo, anche per l’interesse di alcuni letterati, come Salvatore Silvano Nigro. All’orizzonte ci sono molti progetti: una autobiografia, la raccolta delle poesie, la ripubblicazione di tutti i suoi quattro romanzi. A Torino, dal 16 maggio, nella hall del Grattacielo Sanpaolo sarà esposta l’opera I promessi sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati, a cura di Marco Bazzini, mentre al Lingotto Isgrò sarà protagonista di un match tra arte e letteratura. «Ho avuto molta fortuna — dice — ma ho lavorato sempre con amore. E questo ora mi viene restituito». Qualcuno dice: in ritardo. «Non è vero: a quanti questo non succede mai?». Isgrò guarda il mondo, anche artistico, con modestia e distacco: «Trovo del buono in molte cose. Sono piuttosto indulgente, a parte quando la mistificazione è proprio patente e fa danno».
Perché la sua attività letteraria è restata marginale?
«Ho fatto sempre tutto senza incardinarlo in una carriera, come se fossi un principe del Settecento che se lo può permettere. Poi non facevo parte di gruppi, ho sempre vissuto da solitario. Noi siciliani siamo così: isole che ogni tanto formano arcipelaghi. Fa parte del nostro carattere, anarchico nel senso migliore del termine».
Il suo primo romanzo, pubblicato dal Formichiere nel 1974, si intitola «L’avventurosa vita di Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini». Venne candidato allo Strega.
«Era nato come installazione. Lo presentarono allo Strega Silvana Ottieri e Andrea Zanzotto. Maria Bellonci credeva fosse un romanzo normale, invece constava di una serie di testimonianze, alcune possibili ma tutte inventate da me, su questo Emilio Isgrò che sfugge continuamente, che vive nella chiacchiera. La prima era di mia madre: “Non è mio figlio, mio figlio aveva una cicatrice sulla coscia”. La seconda di mio padre: “Mai avuto un figlio di nome Emilio”. “Era una piccola ruota, una piccola vite del grande ingranaggio” scriveva Mao Zedong. “Non mi risulta abbia mai manifestato proposti di suicidio” diceva Franco Fortini. Quando qualcuno non mi stava simpatico gli facevo fare una dichiarazione odiosa. Era un romanzo destrutturato al massimo, avevo già fatto le cancellature che nascevano dall’insofferenza verso la parola logorata dall’uso e dalla tradizione».
Come andò allo Strega?
«Ebbe, mi pare, 7 voti, tra cui quello di Inge Feltrinelli che mi consegnò la scheda. La Bellonci, quando si accorse di che cos’era, chiese a Stefano Jacini, editore del Formichiere, di ritirarlo. Lui organizzò una grande manifestazione di sostegno nella sede di via del Lauro dove tutta la Milano che contava si riunì. Se ne parlò a lungo».
Quando è cominciato il suo amore per i libri?
«Sono cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, in una famiglia modesta ma molto colta. Mio padre era ebanista e anche musicista, suonava in un’orchestra da ballo. Ricordo che mio zio Ciccio, pittore, mi portò per la prima volta al Teatro Massimo, facemmo un viaggio da Barcellona a Palermo che durò sette ore, con una macchina con accensione a manovella, subito dopo la guerra. Ero amico di Rosanna Pirandello che apparteneva al ramo messinese dei Pirandello di Agrigento. Quel nome mi lavorava dentro. In provincia, dopo la guerra, c’era una grande permeabilità di classi sociali. Così, pur venendo da una famiglia semplice, potevo fre- quentare il meglio delle intelligenze isolane. Al liceo conobbi Vincenzo Consolo, aveva due anni più di me. Diventammo molto amici, fu lui a farmi conoscere Leonardo Sciascia».
Che rapporto aveva con Sciascia?
«Temevo di essere distante da lui per le mie scelte artistiche. E lui non incoraggiava molto con le sue risposte a monosillabi. Un giorno Consolo mi chiamò per dirmi che Sciascia aveva piacere di invitarmi a pranzo. Diceva che le cancellature gli toglievano il sonno. Ci vedemmo, cadde il silenzio, il dialogo non decollava in nessun modo. Si sciolse nel mio studio quando mi confessò che voleva comprare un’opera per la sua casa di Racalmuto. Cominciò a indagare sui libri cancellati appesi alle pareti. Ma non si decideva per l’uno o l’altro. Scelsi io per lui: il Vangelo di Giovanni da cui emergevano solo le parole In principio era il verbo, in greco. Glielo regalai».
La sua grande passione letteraria sono «I promessi sposi». Quando è iniziata?
«Quando ho finito le elementari ho detto a mia madre: adesso sono grande, regalami Pinocchio e I promessi sposi. Li avevo visti nella vetrina di una libreria. In seguito le Novelle per un anno di Pirandello e poi un po’ di tutto. Sono stato molto fedele a Manzoni, cancellarlo è stato un supremo atto d’amore. La scrittura manzoniana è quanto di più potente la