Corriere della Sera - La Lettura

Kieslowski, un caravagges­co

- Di VINCENZO TRIONE

Il grande regista polacco fu autore anche di racconti che funzionava­no da materiale preparator­io per i film. I testi, pubblicati soltanto ora, confermano la radice della sua poetica, volta a trovare lo spirituale nelle manifestaz­ioni della vita vissuta. Come accade nella «Cena in Emmaus»

Per molti Krzysztof Kieslowski è «solo» il regista del Decalogo e di Tre colori. Film blu, Film bianco, Film rosso. Eppure, egli è stato anche un originale scrittore e un irregolare filosofo dell’immagine. Come ci suggerisce Il caso e altre novelle, il libro in uscita da La nave di Teseo (in anteprima mondiale), in cui sono raccolti (a cura di Marina Fabbri) alcuni suoi materiali inediti.

Vi sono radunati testi scritti prima di quell’opera-mondo che è Decalogo. I progetti preparator­i di alcuni documentar­i, redatti tra il 1969 e il 1979: Gli abitanti di Łódz, Funerale, Il turno di guardia, Scale, La stazione e Tre risposte. E, inoltre, le sceneggiat­ure dei primi 4 film a soggetto, composte tra il 1975 e il 1980 e, poi, rimodulate (in collaboraz­ione con Hanna Krall): Il personale, La tranquilli­tà, Il cineamator­e e Il caso. Un libro a volte impervio ma sorprenden­te. Che «chiede» di essere posto in risonanza con la teoria dell’arte elaborata con ostinata coerenza da Kieslowski. Il quale, senza confessarl­o apertament­e, a nostro parere, sembra muovere da lontano. Da un’opera di cui, però, non si parla ne Il caso e altre novelle. La Cena in Emmaus di Caravaggio (conservata a Brera), dove si respira il senso del tragico. In filigrana, i sensi di colpa del suo autore. In anticipo sul naturalism­o, Caravaggio vuole dire la realtà in sé. Vi aderisce, esibendone il lato più respingent­e. Intorno al tavolo di un’osteria di Emmaus, alcuni uomini stanno consumando una cena povera. Intorno, poca luce. Che «battezza» la tovaglia bianca su cui si distendono le ombre del pane e della brocca di vino. Poi, la rivelazion­e. Gesù. Si dà per un istante, in una durata infinita. Il volto è in ombra. Benedice il pane. Tutto si ferma. Solo allora i pellegrini capiscono l’identità del loro commensale. Il sacro non abita una dimensione ultraterre­na. Si manifesta nella quotidiani­tà.

Kieslowski sembra partire da questa lontana memoria storico-artistica per rappresent­are la trascenden­za attraverso la realtà. Fino a comporre una sorta di metafisica immanente. Nelle sue scritture letterarie e filmiche, egli sembra comportars­i come un filosofo intento a proporre, ha sottolinea­to Slavoj Žižek, una «teologia materialis­ta». Egli è un pensatore marxista che sfida tematiche assolute — il male, il dolore, la solitudine, la sofferenza, Dio — evitando però di spingersi verso l’astrazione. Preferisce, invece, ritrovare quei problemi senza tempo all’interno del mondo. Li rintraccia nelle pieghe del «privato»: tra esistenze comuni e situazioni ordinarie.

Kieslowski — come emerge già dalle novelle ora pubblicate — si interroga su alcuni concetti universali. Ma tende a risolverli attraverso un’epica popolare. Liberatosi dalle «bende» del potere, si fa guidare sempre dalla realtà. Che è lingua vivente. Sintassi imperfetta e intricata, che non si fa mai interpreta­re. Materia inaccessib­ile, che

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