Corriere della Sera - La Lettura

Il reddito garantito umilia le persone

Dibattito Lo studioso tedesco Henning Meyer: «Essere mantenuti senza lavorare toglie dignità ai cittadini. Un passo falso. Molto meglio che lo Stato li impieghi per attività socialment­e utili»

- Di CARLO BORDONI

Che si chiami reddito di base, di cittadinan­za o salario sociale, si tratta di una questione cruciale. Molti lo consideran­o uno strumento irrinuncia­bile per contrastar­e la povertà, altri lo vedono come fonte di lassismo e parassitis­mo sociale. Da un lato se n’è impadronit­o il populismo per destabiliz­zare gli equilibri politici, dall’altro i neoliberis­ti lo vedono come l’occasione propizia per liberarsi di sistemi pensionist­ici troppo gravosi. La sua lontana matrice fabiana, da socialismo utopistico, è stata raccolta da diversi pensatori, come André Gorz, per il quale «tutti contribuis­cono alla produzione sociale per il semplice fatto di vivere in società e meritano dunque quella retribuzio­ne che è il reddito d’esistenza». Ma le perplessit­à sono molte. Henning Meyer, tedesco docente alla London School of Economics, ne mette in dubbio l’efficacia contro la disoccupaz­ione. Senza contare che lo smantellam­ento del sistema previdenzi­ale, sostituito da misure minime generalizz­ate, si risolvereb­be in una falsa democratiz­zazione, privilegia­ndo le classi che non hanno bisogno di sostegno.

Professor Meyer, il reddito universale di base è considerat­o una delle priorità della futura agenda economica. Questa misura può davvero contrastar­e la disoccupaz­ione tecnologic­a?

«La minaccia potenziale della disoccupaz­ione tecnologic­a è una delle questioni economiche più gravi del nostro tempo, eppure c’è uno scarso dibattito su quale dovrebbe essere la risposta globale al problema. Non sappiamo se si materializ­zeranno su larga scala le previsioni pessimisti­che sulla perdita dei posti di lavoro, ma sappiamo che i governi devono essere preparati, se e quando si verificher­anno mutamenti significat­ivi. L’idea di un reddito universale di base è la pietra angolare della discussion­e politica in corso. Ma se si esamina il problema nei dettagli, è evidente che il reddito di base non risolverà le questioni chiave. Per diversi motivi: il primo è che il reddito di base riduce il valore del lavoro a semplice fonte di introiti. Guadagnars­i da vivere è ovviamente una questione cruciale, ma il lavoro è anche il fattore principale di autostima, necessario a strutturar­e la vita delle persone e a dotarle di un ruolo sociale. Inoltre c’è il rischio di lasciare cicatrici. Se le persone abbandonan­o il mercato del lavoro e vivono a lungo di salario sociale, le loro possibilit­à di trovare un impiego si assottigli­ano, visto che l’attuale trasformaz­ione tecnologic­a rende rapidament­e obsolete le competenze».

Eppure il reddito di cittadinan­za potrebbe contribuir­e a ridurre la disuguagli­anza, ormai caratteris­tica endemica dei Paesi più sviluppati.

«Pagare le persone con un reddito di base non risolve il problema fondamen- tale per cui nell’economia digitale alcuni andranno avanti e molti rimarranno indietro. Uno degli argomenti più diffusi è che, se la gente vuole più denaro rispetto al reddito garantito, può lavorare per qualche giorno. Ma se il problema è la disoccupaz­ione tecnologic­a, questa opzione è sempliceme­nte inattuabil­e, dato che il lavoro non ci sarà più. L’economia digitale crea così una nuova sottoclass­e appesa al reddito di base e un’élite economica che gode di vantaggi maggiori; per di più sgravata di gran parte della responsabi­lità sociale per quelli che restano indietro, dato che il finanziame­nto dei loro redditi sarà ricavato dalla tassazione fissa e dall’abolizione della previdenza sociale».

C’è un rapporto tra reddito di base e flussi migratori?

«Possono sorgere problemi spinosi sul diritto degli immigrati di accedere al reddito di base e, nel caso dell’Europa, su come renderlo compatibil­e con la libertà di circolazio­ne nell’Unione Europea e con le norme di non discrimina­zione. Inoltre in molti Paesi non sarebbe sem- plice abolire gli attuali sistemi pensionist­ici per sostituirl­i con l’introduzio­ne del reddito sociale, perché sono legati a precisi diritti acquisiti».

Quali potrebbero essere le soluzioni alternativ­e?

«Innanzitut­to i sistemi formativi dovrebbero adattarsi alle nuove realtà economiche. L’istruzione dovrebbe essere fondata meno sul mandare a memoria le nozioni e più sulla trasformaz­ione di queste in conoscenza, insegnando a trasferire competenze creative, analitiche e sociali. In secondo luogo, di fronte a una vasta disoccupaz­ione tecnologic­a, il primo passo dovrebbe essere la ripartizio­ne del lavoro residuo. Non per introdurre la settimana lavorativa di 15 ore che John M. Keynes aveva previsto per i suoi nipoti, ma, dove possibile, per usare quella stessa logica come strumento di riequilibr­io. In terzo luogo, i responsabi­li delle politiche pubbliche dovrebbero pensare a programmi di garanzia dell’occupazion­e, quando si perderanno i lavori tradiziona­li, a sostegno del normale mercato del lavoro e per mantenere le persone attive e capaci di utilizzare le loro competenze».

Significa recuperare lo spirito keynesiano dell’intervento pubblico nell’economia. I governi dovrebbero comportars­i come «datori di lavoro di ultima istanza»?

«Certo, questo eviterebbe le cicatrici e si potrebbero promuovere attività di riqualific­azione. I governi avrebbero uno strumento aggiuntivo per incentivar­e le attività socialment­e utili. Ad esempio le garanzie di lavoro potrebbero essere efficaceme­nte utilizzate nei settori della salute e dell’assistenza, dove le tendenze demografic­he all’ invecchiam­ento richiedera­nno in futuro un maggior intervento umano. Ma anche per finanziare lo sport e altre attività culturali a livello locale, rafforzand­ola coesione sociale delle comunità. Non si tratta di introdurre un’economia pianificat­a».

Ma dove si trovano le risorse finanziari­e necessarie?

«Vale certo la pena di ripensare la tassazione, assieme all’ipotesi di ampliare la base imponibile, anche se alla fine potrebbe risultare insufficie­nte o distorsiva. Se finiremo davvero in un mondo dove la maggior parte del lavoro verrà svolta dai robot, la domanda fondamenta­le è: chi possiede i robot?».

Chi possiede i robot sarà il padrone del mondo, e non dovrà neppure preoccupar­si delle vertenze sindacali. Che ne sarà dei lavoratori in questa prospettiv­a distopica?

«È più che mai necessario democratiz­zare la proprietà del capitale. Se i proprietar­i di robot saranno i vincitori in questo New Brave World digitale che ricorda il romanzo di Aldous Huxley (in italiano Il mondo nuovo, ndr) le quote di partecipaz­ione della proprietà dovranno essere nelle mani del maggior numero possibile di persone. Può funzionare a livello individual­e e macro. A livello aziendale, modelli come la “quota dei lavoratori” potrebbero diffondere la proprietà tra i dipendenti, in modo che siano sempre meno vincolati ai salari. A livello macro si potrebbero creare speciali veicoli finanziari per risocializ­zare i redditi da capitale. Attraverso fondi di investimen­to pubblici, sulla falsariga delle dotazioni universita­rie o dei fondi sovrani, si possono produrre nuovi flussi di reddito pubblico da utilizzare per finanziare le garanzie di lavoro. Soltanto se unita a questi correttivi politici, la visione libertaria del reddito di base potrà non solo fornire una protezione efficace contro i possibili disagi della rivoluzion­e digitale, ma creare gli strumenti per rafforzare le comunità e ridurre la disuguagli­anza».

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 ??  ?? Lo studioso Nato in Germania nel 1978, Henning Meyer ha studiato in Gran Bretagna e lavora alla London School of Economics. Direttore del gruppo editoriale digitale «Social Europe», si occupa di globalizza­zione, politiche sociali, impatto delle nuove...
Lo studioso Nato in Germania nel 1978, Henning Meyer ha studiato in Gran Bretagna e lavora alla London School of Economics. Direttore del gruppo editoriale digitale «Social Europe», si occupa di globalizza­zione, politiche sociali, impatto delle nuove...

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