Corriere della Sera - La Lettura
La nebulosa oscura incombe su di noi come il colosso sul villaggio di Goya
«Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Navi da combattimento al largo dei bastioni di Orione...». Sotto una pioggia nera il replicante di Blade Runner si spegne lentamente. Ho pensato a questa famosa sequenza guardando queste quattro immagini. La loro bellezza figurativa le avvicina a noi e le rende familiari come uno spettacolo pirotecnico in una sera d’estate. Viene allora spontaneo liberare gli occhi e l’immaginazione: sentiamo il desiderio di abbandonarci e giocare. È lo stesso desiderio che ha guidato gli architetti aztechi e gli astronomi indiani di Jaipur a costruire osservatori astronomici e torri per avvicinare il cielo; la stessa curiosità di Galileo e lo stesso sentimento di Leopardi, dei marinai e degli scienziati, a guidare e raccontare e scrutare, a inventare le mappe dei cieli nel tentativo di impadronirsi delle chiavi per avvicinare quella lontananza immensa.
Guardo di nuovo queste immagini e mi abbandono alla loro dolce malia. Le guardo come fossero opere d’arte e i miei occhi di pittore trovano, in un quadro del periodo nero di Goya ( Il colosso, 1812), che la gigantesca figura che si alza al cielo incombendo su un villaggio ha un’affinità evidente con l’immagine della galassia in formazione che si staglia su un fondo violetto e che il suo aspetto antropomorfo ne fa un golem, un moloch che si sta facendo corpo. Trasmette la sensazione di qualcosa di possente. Pare di sentire tuoni primordiali e dolenti. Ancora un’altra immagine non può non emozionarci. Una notte stellata di mezza estate che si riflette nel mare accendendolo di luci mi porta a van Gogh e a uno dei suoi quadri notturni ( Notte stellata, 1889) dipinti nella sua ultima stagione nel sud della Francia. Il pittore fiammingo, abbacinato e visionario, muove il cielo incendiandolo con girandole vorticose di pennellate. L’ebbrezza e l’emozione che ci trasmette quel quadro sono ancora intatte e sono le stesse che ci accompagnano entrando nella Cappella degli Scrovegni di Padova per ammirare gli affreschi di Giotto. Qui tutto è luminoso e quieto: un universo diurno di lapislazzuli e oro. Le misure terrene si dissolvono in «sovrumani silenzi» e «la profondissima quiete» ci solleva dal peso e dal mistero del mondo.
Guardando l’immagine fatta di incandescenti filamenti che si inabissano in un gorgo infernale, vengono in mente bagliori di incendi notturni; oscurità caravaggesche e lampi crudeli che ci allontanano dalla quiete precedente e il nostro sguardo è calamitato e attratto, si avviluppa, si smarrisce e fa pensare alla lunga sequenza di colori accecanti, psichedelici che caratterizza le scene finali di 2001: Odissea nello spazio che Stanley Kubrick girò nel 1968. A renderla materialmente possibile fu Bruno Contenotte, un artista italiano che usò semplicemente gli strumenti del suo lavoro di pittore per dare vita a quelli che oggi chiamiamo «effetti speciali».
Ora, dopo aver guardato a universi lontani, dopo aver resistito a tentazioni spirituali, cerco rifugio in un’ultima opera. Anche questa è una Cappella e fu fatta costruire dalla famiglia de Menil a Houston e affidata al pittore Mark Rothko. È una costruzione ottagonale, non ha finestre e da un lucernaio scende una morbida luce. Grandi teleri neri, violetti e rosso bruni, uno per ogni parete, circondano lo spettatore che siede al centro e lo invitano a percepire il silenzio. Davanti a noi i misteri dell’infinito irrisolti e lo smarrimento del sovrumano. Lontano.