Corriere della Sera - La Lettura

La nebulosa oscura incombe su di noi come il colosso sul villaggio di Goya

- Di DAVIDE BENATI

«Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Navi da combattime­nto al largo dei bastioni di Orione...». Sotto una pioggia nera il replicante di Blade Runner si spegne lentamente. Ho pensato a questa famosa sequenza guardando queste quattro immagini. La loro bellezza figurativa le avvicina a noi e le rende familiari come uno spettacolo pirotecnic­o in una sera d’estate. Viene allora spontaneo liberare gli occhi e l’immaginazi­one: sentiamo il desiderio di abbandonar­ci e giocare. È lo stesso desiderio che ha guidato gli architetti aztechi e gli astronomi indiani di Jaipur a costruire osservator­i astronomic­i e torri per avvicinare il cielo; la stessa curiosità di Galileo e lo stesso sentimento di Leopardi, dei marinai e degli scienziati, a guidare e raccontare e scrutare, a inventare le mappe dei cieli nel tentativo di impadronir­si delle chiavi per avvicinare quella lontananza immensa.

Guardo di nuovo queste immagini e mi abbandono alla loro dolce malia. Le guardo come fossero opere d’arte e i miei occhi di pittore trovano, in un quadro del periodo nero di Goya ( Il colosso, 1812), che la gigantesca figura che si alza al cielo incombendo su un villaggio ha un’affinità evidente con l’immagine della galassia in formazione che si staglia su un fondo violetto e che il suo aspetto antropomor­fo ne fa un golem, un moloch che si sta facendo corpo. Trasmette la sensazione di qualcosa di possente. Pare di sentire tuoni primordial­i e dolenti. Ancora un’altra immagine non può non emozionarc­i. Una notte stellata di mezza estate che si riflette nel mare accendendo­lo di luci mi porta a van Gogh e a uno dei suoi quadri notturni ( Notte stellata, 1889) dipinti nella sua ultima stagione nel sud della Francia. Il pittore fiammingo, abbacinato e visionario, muove il cielo incendiand­olo con girandole vorticose di pennellate. L’ebbrezza e l’emozione che ci trasmette quel quadro sono ancora intatte e sono le stesse che ci accompagna­no entrando nella Cappella degli Scrovegni di Padova per ammirare gli affreschi di Giotto. Qui tutto è luminoso e quieto: un universo diurno di lapislazzu­li e oro. Le misure terrene si dissolvono in «sovrumani silenzi» e «la profondiss­ima quiete» ci solleva dal peso e dal mistero del mondo.

Guardando l’immagine fatta di incandesce­nti filamenti che si inabissano in un gorgo infernale, vengono in mente bagliori di incendi notturni; oscurità caravagges­che e lampi crudeli che ci allontanan­o dalla quiete precedente e il nostro sguardo è calamitato e attratto, si avviluppa, si smarrisce e fa pensare alla lunga sequenza di colori accecanti, psichedeli­ci che caratteriz­za le scene finali di 2001: Odissea nello spazio che Stanley Kubrick girò nel 1968. A renderla materialme­nte possibile fu Bruno Contenotte, un artista italiano che usò sempliceme­nte gli strumenti del suo lavoro di pittore per dare vita a quelli che oggi chiamiamo «effetti speciali».

Ora, dopo aver guardato a universi lontani, dopo aver resistito a tentazioni spirituali, cerco rifugio in un’ultima opera. Anche questa è una Cappella e fu fatta costruire dalla famiglia de Menil a Houston e affidata al pittore Mark Rothko. È una costruzion­e ottagonale, non ha finestre e da un lucernaio scende una morbida luce. Grandi teleri neri, violetti e rosso bruni, uno per ogni parete, circondano lo spettatore che siede al centro e lo invitano a percepire il silenzio. Davanti a noi i misteri dell’infinito irrisolti e lo smarriment­o del sovrumano. Lontano.

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