Corriere della Sera - La Lettura
Meduse cosmiche ranuncoli celesti
L’occhio di Herschel e il nostro e Solo i versi vanno più lontano
Una notte limpida del 1781 William Herschel puntò dal giardino della sua casa di Bath il telescopio contro il cielo, e scoprì un nuovo pianeta, che si sarebbe poi chiamato Urano. Nella sua esultanza, il musicista e astronomo inglese di origine tedesca non poté certo immaginare che agli inizi del XXI secolo avrebbe dato il nome al telescopio dell’Agenzia spaziale europea, uno di quelli che ci hanno permesso di gettare lo sguardo ben al di là del sistema solare e della nostra galassia. Herschel finì per dire simili a un giardino lussureggiante di tante specie di rose e ranuncoli quei cieli che andava studiando.
Tra i miei giochi infantili, c’era sempre quello in cui mi fingevo astronomo: da una veranda che dava su un cortile ispezionavo le stelle a occhio nudo o con un vecchio binocolo da teatro di mio padre, e mi sembrava che l’oscurità si popolasse di miriadi di piccolissimi fiori rossi o azzurri. Quando più tardi cominciai a guardare le foto in arrivo dallo spazio, le immagini delle nebulose come Aquila, Rosetta, Eta Carinae mi richiamarono alla mente, con ben maggiore evidenza, fiori con la consistenza dei loro petali, la profondità delle loro corolle: mi apparvero simili a rose e ranuncoli celesti.
Oggi di fronte a queste foto di galassie, nebulose, stelle, mi sembra di viaggiare ancora più lontano nella bellezza multiforme e insondabile dell’universo, di cui l’anima, fonte di energia non meno grande di un sole, cerca di capire il mistero. Una foto mostra la nebulosa Testa di Cavallo. Ed è proprio una testa equina che si può vedere in quell’agglomerato di gas rarefatti e di polvere cosmica, ma non sarebbe neppure difficile riconoscervi un gigante con le spalle spinte in avanti, uno di quelli delle mitologie nordiche, portatori di violenza e di buio: e al centro, dal basso, leggermente obliqua verso destra, non è una testa con la bocca aperta di delfino, di drago?
In un’altra foto mi sgomenta la potenza centripeta, risucchiante, della spirale rossa, al fondo della quale si accendono filamenti di una luce fortissima. È troppo consistente per assomigliare a una corolla, anche a quella del fiore di una pianta grassa, è troppo profonda, spessa e sfrangiata. Mi fa pensare di più a un vulcano e alla sua lava, a un vortice di materia pura, all’espandersi e al collassare del cosmo che gli indù descrivono con il risveglio e il sonno di Brahma. Non è straordinario che noi umani possiamo pensare e ora vedere galassie lontane dalla Terra 350 milioni di anni luce? Se la scienza oggi ipotizza con i tachioni particelle che viaggiano più veloci della luce, la poesia ha sempre intravisto pensieri «che scorrono dieci volte più veloci dei raggi del sole» (Shakespeare).
Un’altra foto è ancora più enigmatica, anche se con un impatto visivo meno violento. La nube di gas che avvolge le stelle richiama l’ombrella pulsante di una medusa. E per chi come me conosce bene queste creature marine, che sono fatte al 99% di acqua e che furono i primi esseri organici ad abitare gli oceani, è entusiasmante rivedere in una nebulosa la loro trasparenza leggera che rimanda a tempi primordiali. Se nella nostra Via Lattea vivono cento miliardi di stelle, e nell’universo centinaia di miliardi di galassie, l’ultima foto, che mostra una popolazione fittissima di corpi celesti, ci dà un perfetto quadro della vastità senza confini dell’universo.