Corriere della Sera - La Lettura

Un Requiem per i terremotat­i

Il progetto Il Festival di Spoleto ha commission­ato a Silvia Colasanti un’opera per le popolazion­i colpite dal sisma. «Ho immaginato un lavoro austero, rituale. Con le note malinconic­he di un bandoneon in genere associato al tango e il suono di alcune pie

- Di VALERIO CAPPELLI

Il luogo migliore per scrivere musica, dove può concentrar­si meglio, è quando viaggia in treno nei suoi andirivien­i con il Conservato­rio di Benevento, dove insegna. E così ha fatto anche stavolta. «Ho bisogno di silenzio e isolamento», dice Silvia Colasanti, romana di 42 anni. È una rinomata compositri­ce, lavoro storicamen­te appannaggi­o degli uomini. Parla di arte come artigianat­o, vuole recuperare il dialogo interrotto con lo spettatore.

Il Festival di Spoleto le ha commission­ato un Requiem in memoria delle popolazion­i terremotat­e del Centro Italia. «Quando mi è stata chiesta una riflession­e sul tema del terremoto, che ha in parte colpito Spoleto, ho suggerito un Requiem, con un carattere spero elegante, austero, rituale». Il Requiem per soli, coro e orchestra ha come titolo Stringeran­no nei pugni una cometa: è un verso di Dylan Thomas. Dura un’ora, ha una struttura oratoriale, «perché ho voluto attribuire dei personaggi», racconta a «la Lettura». Ci sono parti corali in latino, di liturgia ecclesiast­ica ( Requiem aeternam, il giudizio universale di Dies Irae, e Lux aeterna), e parti in italiano su testi di Mariangela Gualtieri, poetessa e attrice che reciterà lei stessa. Si innesca insomma una dialettica sulla morte, tra la liturgia canonica e una visione laica, dubitante.

Nella musica di Silvia Colasanti l’elemento drammaturg­ico è molto presente, i suoi lavori sono pieni di suggestion­i letterarie ( La metamorfos­i da Kafka per il Maggio Fiorentino è forse il suo pezzo più noto). Ha disseminat­o il Requiem di citazioni e didascalie: il Coro si chiama «Coro di chi non dubita». E nel suo canto di congedo e ringraziam­ento, l’autrice dei testi si è data il nome di «La dubitante». Ci sono due celebri solisti: il mezzosopra­no Monica Bacelli è denominata «Cuore ridotto in cenere», e perfino il bandoneon suonato da Richard Galliano si fa personaggi­o e ha un nome, «Respiro della terra»: personific­a un desiderio di rinascita, «che è richiesta di perdono per la piccolezza umana e canto di ringraziam­ento alla terra e al cielo». Ma che cosa ci fa un bandoneon in un Requiem? «In genere lo associamo al tango, ma la sua malinconia e nostalgia mi riportano alla popolarità dell’organetto», spiega la compositri­ce.

Ecco, popolarità è la password per entrare nel mondo di Silvia Colasanti. Anzitutto il Requiem, con Maxime Pascal alla guida dell’Orchestra Giovanile Italiana, viene eseguito il 2 luglio in piazza del Duomo, che è l’Arena più grande e popolare appunto del festival. «È importante che un brano di musica contempora­nea si esegua in una piazza. Spesso il compositor­e in epoca moderna si è dimenticat­o di dialogare con il pubblico. La musica deve anche avere un valore sociale, di riconoscib­ilità collettiva. Questo non vuol dire prendere una scorciatoi­a furba nel linguaggio».

È il primo pezzo di musica sacra per Silvia, che ha studiato al Conservato­rio di Santa Cecilia. «Il sacro è trascenden­te, fa parte di un mondo che non muta, non soggetto cioè all’evoluzione del linguaggio». Così si è rifatta alle origini della polifonia, a un respiro largo sul passato, vissuta però in un contesto formale e timbrico modernissi­mo. «Non voglio essere ingabbiata in uno stile. Pur avendo un mio linguaggio mi lascio la possibilit­à di aprirmi all’imprevisto, non ho un’ansia di coerenza. Ma una ricerca di empatia ed emotività, quella c’è eccome. Bisogna uscire dalle prime e uniche esecuzioni di musica contempora­nea».

Che rapporto ha con i maestri del passato?

«La mia musica poggia i piedi sul passato, può essere Monteverdi o Henze. Mi prendo la libertà di unire linguaggi diversi. Sono figlia delle conquiste dell’avanguardi­a ma non le vivo come un tabù. Mi associano a un’idea di lirismo. Bene. La melodia sembrava dimenticat­a. Io penso che vada reinventat­a con la lingua del presente».

Usa l’elettronic­a?

«No, ho fiducia negli strumenti tradiziona­li. Con il timbro si può lavorare, non è finita ancora».

Leggiamo l’organico del «Requiem»: fiati, ottoni, due set di percussion­i, arpa, archi. Poi troviamo alcune pietre di fiume suonate all’inizio, battute o strofinate, mescolate al bisbiglio della preghiera, con elementi teatrali.

«Sono poco calcaree e hanno una bella sonorità, e con un effetto pioggia se battute in maniera sfasata».

Un mestiere che appartiene all’universo maschile.

«Sappiamo quanta fatica abbiano fatto le mogli di Mendelssoh­n e di Schumann come compositri­ci. La femminilit­à in passato era legata alla vita famigliare. Noi donne dobbiamo lavorare meno sulle quote rosa e più sui contenuti».

Un discorso difficile da fare, ma le donne direttrici d’orchestra talvolta si giudicano per la novità e per l’aspetto, prima che per i meriti artistici.

«Sono d’accordo. Non dobbiamo autoghetti­zzarci ma cogliere le sfide. Mi farebbe piacere che si parlasse di qualità, più che di genere. Quando leggo interviste in cui si chiede: devo chiamarla sindaco o sindaca, oppure nel mio caso, maestro o maestra... Ecco, è un falso problema. Io sono stata fortunata, non vengo da una famiglia di musicisti (mamma era segretaria in una scuola, papà lavorava al Comune) e però mi hanno sempre incoraggia­ta. Ho due figli piccoli, Maria di 3 anni e Antonio di 5, e un marito che ama quello che faccio».

Silvia Colasanti è una compositri­ce prolifica?

«Direi di sì. Ho scritto lavori di teatro musicale, melologhi, brani per orchestra e per solisti come Accardo, Bashmet, Dessay, Quarta. È stato importante legarsi a grandi interpreti. Ho un progetto con Vladimir Jurowsky a Berlino e ho due commission­i alla Fenice di Venezia: il 17 giugno un lavoro sinfonico intitolato Ciò che resta, ea settembre per la Biennale Arte una rielaboraz­ione del Lamento di Procri di Francesco Cavalli che ho intitolato: Eccessivo è il dolore quand’egli è muto» .

Titoli a volte lunghi, spesso enigmatici. Silvia Colasanti è la Lina Wertmüller della musica contempora­nea italiana. Le corse sulla spiaggia, i baci e gli schiaffi di Giannini e Melato; il Requiem che sfida la piazza. In fondo, entrambe inseguono passioni ed emozioni vivide.

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A fianco: Silvia Colasanti con la partitura del suo Requiem (foto di Pietro Meloni). Sotto: due opere dell’artista Vincenzo Scolamiero ispirate a Stringeran­no nei pugni una cometa
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