Corriere della Sera - La Lettura
Doonesbury profeta di Trump
Dal 1970 le sue strisce raccontano l’America e sono ormai un’istituzione. Con «la Lettura» l’autore riconosce di avere avuto fiuto, confida nella «Resistance» e si dice un po’ deluso da Obama
Il mondo delle lettere americane ospita già un autore al quale è stato attribuito, più di una volta, il dono della profezia: Don DeLillo, che ha anticipato nei suoi romanzi degli scorsi decenni il terrorismo globale, le teorie cospiratorie che diventano un fenomeno virale, lo strapotere di Wall Street, l’ascesa degli oligarchi — russi e non solo — che hanno conquistato il mondo. Uno dei commentatori politici americani più acuti e seguiti — Garry Trudeau, che non scrive romanzi ma dal 1970 firma la striscia quotidiana Doonesbury — ha fatto qualcosa di più: ha immaginato, trent’anni fa, Trump candidato alla Casa Bianca ( ha a nc he p re vi s to ne i su o i f u mett i Trump re dei reality show prima che succedesse davvero). Ora che le strisce che ha dedicato a «The Donald» escono raccolte in volume ( Trump! Trent’anni con Donald, Rizzoli Lizard), Trudeau racconta a «la Lettura» i suoi tre decenni alle prese con il fenomeno Trump.
Marla Maples, seconda moglie di Donald Trump, ha spiegato recentemente al «Corriere della Sera» che Trump ipotizzava di candidarsi alla presidenza già negli anni del loro matrimonio (1993-1999): lei già dal 1987 l’ha immaginato candidato alla Casa Bianca.
«Mi piacerebbe dire che quando si è candidato per davvero io ero sicuro della sua vittoria, però non è così. Nel 1987 comprò spazi pubblicitari sui giornali per avvertire i lettori del declino dell’America con un lessico pressoché identico a quello che ha usato per la sua campagna del 2016, e fu divertente immaginarlo candidato per davvero. Però no, non avevo un’idea precisa delle sue chance durante le primarie. Quando lo vidi scendere dall’ascensore della Trump Tower per annunciare la sua discesa in campo a una platea di figuranti prezzolati pensai che tutto quello che avrebbe detto e fatto durante la campagna sarebbe stato azzerato dalla sua personalità, dal suo curriculum. E per qualunque altro candidato, in qualunque altro momento, sarebbe stato così. Per ragioni che non finiscono di lasciarmi basito, gli elettori preoccupati dei “valori”, gli evangelici soprattutto, hanno sospeso qualunque obiezione sulla sua straordinaria lontananza dalla fede. Trump è l’incarnazione dei sette peccati capitali e di nessuna virtù capitale. Si è vantato delle sue aggressioni sessuali. La sua ignoranza, la sua inesperienza, il suo narcisismo? Non contavano nulla, per loro. Fino alle fine ammetto che pensavo che avrebbero finito per avere un peso sull’esito delle elezioni. Fortunatamente non sono pagato per fare previsioni».
Ha vinto per demeriti dell’avversaria? Sui media americani c’è un nuovo passatempo: cercare di definire di chi è la colpa della sconfitta di Hillary Clinton. Tra gli imputati, oltre a lei stessa, ci sono la Russia, la misoginia, l’indagine dell’Fbi sulle sue e-mail. Questo tema la appassiona molto?
«Solo per quanto riguarda la Russia. Al di là dell’impatto sulla campagna di Hillary Clinton, mi interessa moltissimo il ruolo della Russia e la sua interferenza nelle nostre elezioni. Tra l’altro molti americani sono interessati ai tentativi di Putin di influenzare elezioni europee. Al momento Putin non dà segni di battere in ritirata, sta facendo tutto quello che è in suo potere per scuotere la nostra fiducia nelle nostre elezioni. Se i legami tra Russia e Trump non restassero nei prossimi mesi tra i temi dominanti del dibattito sarei molto sorpreso».
I Democratici non sembrano al mo- mento avere un leader, così è emersa la cosiddetta «Resistance». Buona idea o un autogol come Occupy Wall Street?
«La Resistenza è un fenomeno molto più ampio di un movimento come Occupy, che si suicidò quando decise di insistere su una gerarchia orizzontale nella sua leadership. Se tutti comandano, non comanda nessuno. E senza una missione chiara e qualcuno in grado di articolarla, è finito nell’irrilevanza. La Resistenza è interessante perché racchiude diverse anime che usano uno stesso marchio per esprimere agende diverse. Quasi ogni weekend assistiamo a manifestazioni di piazza; ancora più importante è che gli attivisti tengano il sistema sotto pressione, presentandosi agli incontri con gli elettori di deputati e senatori o addirittura candidandosi alle elezioni. È un movimento più pragmatico, con i piedi per terra. È un segnale di maturità politica. Bene per la nazione, male per la satira».
Un altro tema è la presunta, secondo alcuni commentatori, instabilità di Trump: ma non è contradditorio sostenere da una parte che è psichicamente instabile e dall’altra che ha organizzato tutto solo per arricchirsi usando la presidenza come strumento di pressione e di promozione del suo brand?
«Domanda divertente: no, sono convinto che Trump per primo non pensava che avrebbe vinto. Sulla questione della sua instabilità, il sociopatico può essere, e spesso è, capace di mettere a fuoco con precisione questioni pratiche e di ottene- re risultati in base alle mete prefissate. Esistono parecchi ricchi che sono un po’, diciamo, fuori di testa. Quel che mi duole è che durante la campagna non c’è davvero stata una discussione sullo stato mentale di Trump. Il problema è che la maggior parte dei giornalisti non si sentiva professionalmente in grado di dare un giudizio sulla patologia del candidato Trump. In America c’è un detto: se ha l’aspetto di un papero, cammina come un papero, fa il verso di un papero, probabilmente è un papero. Non bisogna essere ornitologi per riconoscere un papero. Io che di mestiere faccio il cartoonist e non lo psichiatra posso dire di saper riconoscere un matto quando lo vedo. Il licenziamento del direttore del Fbi, Comey — che non fermerà le indagini, fa pensare a un nuovo Watergate, e amplificherà le voci su un possibile impeachment — dimostra che l’unica spiegazione per le decisioni di Trump è la pazzia».
Nel 2020 saranno 50 anni che lei disegna «Doonesbury». Come si sente nei panni di quella che, di fatto, è ormai un’istituzione culturale americana?
«Istituzione culturale è troppo. Il segreto di una strip di fumetti come la mia, segreto che non si dovrebbe rivelare, è che una volta che sei pubblicato da una larga rete di quotidiani, che è difficilissimo e le probabilità di successo sono minime, ecco, una volta che sei syndicated per i giornali diventa difficile sbarazzarsi di te. Diventi un’abitudine quotidiana dei lettori. E tu e i lettori invecchiate insieme. L’altro motivo della mia longevità professionale è che ho un temperamento che si adatta molto bene ai ritmi di disegnare fumetti giorno dopo giorno, essere sotto pressione mi fa stare bene. Le mie cose migliori le ho scritte a poche ore dalla stampa del giornale, con la pistola alla tempia come si dice qui nel ramo dei quotidiani. Però il premio Pulitzer, i 47 anni di carriera, non li avevo pianificati, impossibile, pensavo che avrei fatto Doonesbury per qualche anno e poi sarei tornato a fare il mio mestiere, cioè il grafico. Quello era il piano A per la mia vita. Doonesbury è stato il piano B».
Dopo 47 anni, è più facile scrivere «Doonesbury»?
«Mi è sempre piaciuto da matti ma non è diventato più semplice. Più difficile, forse. Una striscia di fumetti sul giornale è simile alla corrente elettrica, all’acqua potabile: la gente è abituata a averla sempre, ogni giorno. Ultimamente lavoro anche in tv, così disegno solo le strisce della domenica. Sarò onesto: non mi manca la frusta del quotidiano».
Torniamo a Trump: che cosa succede se lo scandalo sui legami con la Russia diventa più grave, magari con qualcuno dello staff che finisce incriminato, e i Repubblicani alla Camera si rifiutano di parlare di impeachment?
«Quel che sento da Washington è esattamente questo, i deputati repubblicani alla Camera stanno cercando di prevedere che cosa può succedere e di organizzarsi in tempo. Credo che se lo scandalo russo esploderà per davvero il danno al partito repubblicano sarà troppo esteso, al di là della reazione dei deputati che non voteranno l’impeachment. Non vogliono far esplodere la base, che è e resterà al suo fianco. Se la Camera però l’anno prossimo passasse ai Democratici, l’impeachment diventa assai più probabile. O, come minimo, Trump finirà sotto in- chiesta fino alla fine del mandato».
C’è chi pensa che l’altissimo profilo (rispetto al curriculum) conferito a Ivanka Trump dal padre sia un preludio a una sua futura discesa in campo, lei che dice?
«Io non la vedo candidata, mia moglie (Jane Pauley, storica giornalista politica della tv Usa, ndr) invece sì, pensa che sia in linea con i meccanismi delle dinastie autoritarie. Ma Ivanka non ha lo strano carisma del padre: ha l’eleganza delle ragazze delle scuole private costose ma è senza principi né qualifiche, superficiale come suo padre. Se suo padre finisse rimosso dalla presidenza, il brand sarebbe troppo danneggiato...».
La sua idea su Barack Obama e la parcella da 400 mila dollari per parlare a Wall Street?
«Devo dire che mi ha un po’ deluso, spremere soldi da Wall Street non gli giova come immagine, sono sorpreso che sia stata la sua prima mossa subito dopo aver lasciato la presidenza».
Ci ha sorpreso leggere che lei non ha mai incontrato Trump in questi anni.
«Nell’87 si divertì quando lo misi nella striscia, gli piaceva essere al centro dell’attenzione, ma solo nei primi giorni. Con lui è così, è uno che si stufa presto. Dopo una o due settimane era già lì a dire cose cattive su di me ai giornalisti di gossip dei tabloid di New York. Era il suo modo preferito di comunicare, prima che arrivasse Twitter».
Garry Trudeau: già nel 1987 avevo immaginato che Donald avrebbe puntato alla Casa Bianca Non sono un ornitologo, ma un papero lo riconosco