Corriere della Sera - La Lettura
Non basta più essere tolleranti Accettiamo i rischi dell’incontro
Rispetta la diversità degli altri
Nell’età del libero odio e della regressione violenta il fango non ha risparmiato né l’accoglienza né l’altro. Come se si trattasse di un buonismo caricaturale, di un precetto per anime belle, di quell’etica che ha fatto il suo tempo. Quante storie, insomma, per la cosiddetta «differenza», quella delle donne, degli ebrei, degli omosessuali, dei diversi da «noi», quante storie per gli altri, gli stranieri, gli estranei, quelli che vengono da fuori, non invitati, i malvenuti.
Prima veniamo «noi», poi gli altri! E prima del noi — s’intende — vengo «io». Ecco la nuova «morale» del XXI secolo, ben centrata sull’ego, uguale a se stesso, coincidente con sé. Un ego che si chiude, anzi si blinda, erige muri, innalza frontiere, installa videocamere, nell’angoscia quotidiana che l’altro, l’ospite indesiderato, o meglio, il nemico, possa sopraggiungere d’un tratto.
Questo io snervato dalla paura, barricato in se stesso, ogni tanto si rende conto che, da solo, proprio non ce la fa; piuttosto che spiare fuori, apre un po’ la porta. Lascia entrare l’altro — solo per breve tempo e solo a certe condizioni. Chissà, potrebbe magari tornargli utile. Si mostra addirittura tollerante, parla di «assimilazione», «integrazione». È l’altro che deve rendersi simile, è l’altro che deve adeguarsi. Se questo non accade, se l’altro, nella sua alterità, fa ostacolo, se per caso si ribella, rivendicando la sua differenza, prima ancora della sua libertà, allora l’io potrebbe spazientirsi e fargliela pagare. Il femminicidio — estremo gesto di una violenza diffusa e sistematica sulle donne — va considerato in questo complessivo naufragio dell’etica.
«Tolleranza» è una brutta parola. È la parola pronunciata dall’io sovrano che, dall’alto del suo potere, sopporta la differenza dell’altro. Il cristiano tollera l’ebreo (fino a un certo punto), il bianco tollera il nero. Il presunto autoctono tollera lo straniero. L’io lascia all’altro un piccolo posto nella propria casa — ma potrebbe scacciarlo quando vuole. Si esaurisce qui il modello illuminato della coabitazione tollerante.
Questa morale non va più. Certo, è meglio che essere intolleranti. Ma il punto è che non si può pretendere di immunizzarsi dall’altro. L’io rintanato in sé finisce per girare su se stesso in una fallimentare girandola. Accogliere l’altro significa aprirsi alla sua irriducibile alterità. Perché l’altro non è il limite contro cui urtiamo, ma al contrario, solo l’altro, non senza scuotere e inquietare, può davvero portarci oltre i nostri limiti.