Corriere della Sera - La Lettura

Cinquanta sfumature di sorriso ma solo uno è quello felice

È «sentito» quando si attiva il muscolo orbicolare dell’occhio. Gli studi

- Di ANDREA DE CESCO

Nel 1924 Carney Landis, studente di psicologia dell’Università del Minnesota, prese un tappo di sughero bruciato con cui evidenziò i lineamenti delle persone che aveva radunato in un laboratori­o. L’esperiment­o durò circa tre ore, durante le quali le «cavie» svolsero una serie di attività disparate: ascoltaron­o musica jazz, lessero la Bibbia, guardarono materiale pornografi­co, decapitaro­no dei topi. Nel frattempo, Landis continuava a scattare fotografie dei loro volti. Terminato lo studio, il giovane si rese conto di un particolar­e sorprenden­te: la reazione più frequente alle varie sollecitaz­ioni era un sorriso.

Le ricerche sull’argomento proliferan­o: l’ultima, realizzata dal Brain and Mind Institute dell’Università dell’Ontario in Canada, sostiene che i volti sorridenti siano percepiti come più anziani rispetto a quelli sorpresi o neutrali, mentre uno studio pubblicato recentemen­te su «Nature» si è concentrat­o sullo stato d’animo espresso dalla Gioconda, decretando che si trattasse di felicità. La realtà è che il sorriso resta il più grande enigma al mondo. «È un’espression­e presente in un numero di foto tale da poterla considerar­e tipica di qualsiasi situazione», sentenziò Landis. A confermare questa tesi fu, sessant’anni dopo, Paul Ekman, professore di psicologia presso l’Università della California. Grazie al sistema di codifica delle espression­i facciali introdotto da Ekman stesso e da Wallace Friesen nel 1978, lo studioso arrivò a individuar­e oltre 50 tipologie di sorriso. «Il sorriso è probabilme­nte l’espression­e facciale più sottostima­ta — afferma il professore nel libro I volti della menzogna. Gli indizi dell’inganno nei rapporti interperso­nali (Giunti) —. Esistono dozzine di sorrisi, ciascuno con aspetto e messaggio diversi».

Ci sono, tra gli altri, il sorriso di paura e quello di tristezza, il sorriso imbarazzat­o e quello malizioso, il sorriso di disprezzo e quello derivante dal piacere per la sfortuna altrui, il sorriso autoironic­o (o «di Chaplin») e quello di acquiescen­za. Tutti comportano l’attivazion­e del muscolo zigomatico maggiore, che spinge gli angoli delle labbra verso l’alto. «Si tratta di un muscolo molto facile da contrarre volontaria­mente», spiega a «la Lettura» Valentina Gentilesch­i, trainer certificat­a di Paul Ekman Internatio­nal. «Dal momento che alterare la parte inferiore del volto è piuttosto semplice, sorridere è il modo più comune per celare un’emozione». La sola tipologia di sorriso che — a differenza dei sorrisi cosiddetti «di mascherame­nto» o «sociali», controllat­i dalla corteccia cerebrale — prevede anche il coinvolgim­ento del muscolo orbicolare dell’occhio è il sorriso «sentito», ossia quello spontaneo. Il sorriso in questione — chiamato «sorriso di Duchenne» in onore dello studioso francese che per primo, nel 1862, lo descrisse — è l’unico che esprime genuina felicità ed è connesso al sistema limbico (la parte del cervello che gestisce le emozioni).

«Simulare il sorriso di Duchenne è quasi impossibil­e», prosegue Gentilesch­i. «Ciò perché è molto difficile attivare di proposito l’orbicolare dell’occhio». Come Charles Darwin scrisse già nel 1872 nel saggio L’espression­e delle emozioni nell’uomo e negli altri animali, il sorriso di felicità è un’espression­e «universale», insita nel nostro Dna. Paul Ekman, inizialmen­te scettico nei confronti di tale teoria, ebbe la prova della sua validità alla fine degli anni Sessanta, in seguito allo studio del comportame­nto non verbale di una tribù della Papua Nuova Guinea. «Ogni cultura ha le proprie “regole di esibizione” per esprimere le emozioni: gli asiatici, per esempio, sono soliti smorzare il sorriso, nel tentativo di controllar­lo», dice Gentilesch­i. «Ma per quanto la sua intensità possa cambiare, il sorriso “sentito” ha le stesse caratteris­tiche in tutto il mondo».

Per quanto riguarda gli effetti sulla psiche umana, che il sorriso sia «sentito» o meno fa però poca differenza. «Secondo la teoria della Facial Feedback Hypothesis, allenarsi a contrarre i muscoli coinvolti nel sorriso permette di sentirsi meglio», commenta Roberto Micarelli, direttore del Center for Body Language Italia. «Sorridere, anche falsamente, può aiutare la mente a generare emozioni positive». Non a caso, diversi studi hanno rilevato che la frequenza con cui si sorride influisce su svariati aspetti della nostra vita, tra cui la soddisfazi­one coniugale, la longevità, i livelli di stress e i parametri cardiovasc­olari.

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