Corriere della Sera - La Lettura
Le parole definiscono le identità dell’America È nato a Chicago il museo degli scrittori
Dieci milioni di dollari di investimenti, 120 mila visitatori attesi ogni anno. Melville, l’«Urlo» di Ginsberg, Janis Joplin: un’esplorazione complessiva della produzione letteraria statunitense in relazione alla sua geografia e alla sua storia
L’American Writers Museum è la prima esposizione che esplora l’importanza della parola scritta nell’influenzare identità, storia e cultura degli americani. Situato nel pieno centro di Chicago, a pochi metri dal celebre Bean nel Millennium Park, e inaugurato questo mese, promette di arricchire il panorama culturale di una città che vanta già più di sessanta musei. «Gli scrittori — ha scritto l’ex presidente Barack Obama — ci insegnano a reimmaginare il mondo come potrebbe essere, e non solo com’è. Ci trasmettono le virtù della gentilezza, della tolleranza e del rispetto». Un valore sottolineato anche dalla presidente del consiglio della contea di Cook, Toni Preckwinkle, che ha lodato il museo per il suo ruolo nel formare «cittadini attivi, impegnati e informati, specialmente in questo periodo storico». Qualche entusiastico « » si è levato dal pubblico, ma l’iniziativa è parsa sin da subito bipartisan se si considera che tra i primi sostenitori del progetto ci sono i coniugi Laura e George W. Bush.
Ci sono voluti sette anni perché si realizzasse l’idea dell’imprenditore irlandese Malcolm O’Hagan. Di ritorno da una vacanza a Dublino e dal suo museo degli scrittori, si rese conto che mancava uno spazio dove si celebrasse il valore della letteratura. Chicago sarebbe stata l’approdo naturale del progetto, con la sua forte tradizione letteraria e la sua posizione centrale.
Negli Stati Uniti esistono un centinaio di «case di scrittori» che offrono una prospettiva intima sul rapporto tra luogo e produzione letteraria. Proprio a qualche chilometro da Chicago c’è la casa in cui è nato Hemingway: meticolosamente arredata come doveva essere nel 1899, mette in mostra persino la carta da parati con i leoncini che avevano ispirato le storie del piccolo Ernest. Oggi tutte queste dimore sono partner del museo, e non si esclude una collaborazione in caso di mostre specifiche. Così, in futuro potremmo trovare cimeli dalla vita quotidiana di Whitman in New Jersey, di Faulkner in Mississippi, di Willa Cather in Nebraska.
Ma l’obiettivo ultimo dell’American Writers Museum è un altro: permettere un’esplorazione complessiva della produzione letteraria americana in relazione alla sua geografia e storia culturale. Varcando la soglia del grande spazio al secondo piano di un grattacielo sulla North Michigan Avenue, ci si accorge subito che gli interni sono diversi da quelli che ci si aspetterebbe in un museo di questo tipo: niente ampi corridoi in marmo, niente libri antichi in mostra, niente teche a temperatura controllata per conservare manoscritti e prime edizioni. Lo spazio è invece inondato di luce naturale che entra dalle grandi finestre con vista sui grattacieli, quando non gioca su sapienti contrasti tra luce e buio. L’altra grande assenza è proprio quella dei libri, perché l’esplorazione del museo è quasi sempre interattiva e digitale. Tratto distintivo, questo, dello studio Amaze Design di Boston, responsabile di quel gioiello che è il museo per i diritti civili a Birmingham, in Alabama.
Sin dalla soglia, è evidente l’intento di avvicinare il pubblico alla scrittura — ai suoi effetti sulla realtà, ma anche ai suoi meccanismi interni. «La parola scritta — spiega a “la Lettura” Allison Sansone, coordinatrice delle attività dell’Awm — viene riformulata e resa più democratica ogni giorno. Sarebbe facile pensare che sia un processo iniziato con internet ma anche la stampa ai suoi albori è stata un potente mezzo democratico». Chi verrà al museo cercando approfondimenti di livello accademico rimarrà deluso. Ma non lo sarà chi invece è attratto dai ragionamenti obliqui. D’altra parte, è una scelta chiara sin dal nome: non il museo della letteratura (un po’ intimidatorio, di- cono) ma degli scrittori. E così all’ingresso, sulla grande mappa degli Stati Uniti chiamata Nation of Writers, vengono proiettate immagini della Dichiarazione d’indipendenza, di Melville e Hemingway, per poi passare a Betty Friedan, ai canti dei nativi americani, all’Urlo di Ginsberg, a Johnny Cash e Janis Joplin. «La grande scrittura americana prende tante forme diverse», si legge. Questo ventaglio ampio presta il fianco, talvolta, a una certa superficialità. Un testo di dieci righe non può che sfiorare la vita e l’opera dei giganti, e così capita che Lolita di Nabokov sia «imperniato su un road trip — un genere classico americano — per poi rivisitare i motel e la cultura adolescenziale».
Al contrario, alcune schede tematiche offrono una piacevole trasversalità di temi e geografie. In «Responsabilità sociale» si tocca il lavoro di Gwendolyn Brooks e Richard Wright, che occupano un posto speciale nel panorama letterario di Chicago. Si passa poi ai vergognosi campi in cui venivano internati gli americani di origine giapponese a seguito dell’attacco a Pearl Harbor, associandoli al lavoro di Dorothea Lange — non una scrittrice, dunque, ma probabilmente la più grande narratrice per immagini di quella pagina buia della storia americana. E così come non si trascurano le scritture private che hanno avuto origine nei campi stessi (per esempio quello di Manzanar, in California), non si manca di ricordare il padre della canzone di protesta americana, il grande Woody Guthrie e la sua chitarra che «uccide i fascisti».
Anche a un’occhiata rapida, ci si rende conto di un dettaglio importante: gli scrittori presi in esame sono tutti morti. Potrebbe sembrare una scelta miope o quantomeno conservatrice.
A«Volevamo considerare gli autori che sono stati testati dal tempo — dice Sansone —. Una squadra di una dozzina di curatori si è occupata dei contenuti del museo, e ha ritenuto che gli autori qui inclusi fossero quelli che più hanno contribuito allo sviluppo della tradizione letteraria americana».
Una gabbia meno stretta è quella offerta dalle mostre temporanee, che daranno spazio anche ad autori contemporanei. La prima di queste è un omaggio al poeta W. S. Merwin, che dipinge in parole gli orizzonti cristallini della sua Maui. Per lui è stato creato un vero giardino tropicale da esplorare mentre si ascoltano le sue poesie, trasmesse insieme a quelle di altre figure che hanno formato la sua poetica (c’è anche Ezra Pound).
Dicevamo che non troverete poltrone o scrittoi in mogano qui: ma un cimelio c’è, e siamo sicuri che attrarrà parecchi visitatori. Fino a fine ottobre sarà infatti ospitato l’Original Scroll, il rotolo su cui Jack Kerouac portò febbrilmente a termine il suo Sulla strada che ancora oggi non ha perso fascino. «Il lettore e la lingua dello scrittore — ha detto lo storico e vincitore di due premi Pulitzer David McCullough — hanno la stessa relazione che c’è tra un ballerino e la musica che lo fa muovere. Nel mio cuore, questo museo celebrerà la grande arte della scrittura, ma anche la grande arte della lettura».
Nei prossimi mesi questi spazi ospiteranno il lavoro di Laura Ingalls Wilder e Frederick Douglass, insieme a esplorazioni più trasversali tra cui la storia raccontata dai grandi fotografi e una mostra sui Premi Nobel americani.