Corriere della Sera - La Lettura
Le memorie (leggere) di Adriana (Asti)
L’attrice mette in scena se stessa, anzi se stessa e il suo doppio: «Un bilancio esistenziale involontario. Il teatro è come il deserto per i beduini e il mare per i marinai. Per me è anche il modo per essere un’altra»
«Il teatro è come il deserto per i beduini o il mare per i marinai: non si domandano più perché sono lì sulla sabbia o in mare... ci restano e basta. Quelli che fanno teatro non possono più abbandonare il palcoscenico». La nuova avventura scenica di Adriana Asti parte dal suo libro Ricordare e dimenticare (Portaparole editore, 2016), un divertente pamphlet dove l’attrice rievoca fatti e personaggi della sua lunga carriera, iniziata quando da ragazzetta «volevo semplicemente andarmene di casa».
Nasce così Memorie di Adriana che debutta il primo luglio al Teatro Caio Melisso, per il Festival di Spoleto, con la regia di Andrée Ruth Shammah. Il titolo rifà il verso, con la consueta autoironia che contraddistingue la protagonista, al grande successo che fu interpretato da Giorgio Albertazzi dal romanzo di Marguerite Yourcenar. Quelle, però, erano le memorie dell’imperatore Adriano. «Io forse sono un’imperatrice mancata — scherza la Asti —. Confesso che mi piacerebbe esserlo stata, ma mi rendo conto che desiderare una roba del genere è lo stesso che desiderare di essere una meringa. Le mie — aggiunge — sono memorie leggere e la citazione del titolo illustre è una semplice civetteria». Ma esiste qualche nesso con lo spettacolo che debuttò quasi trent’anni fa a Villa Adriana? «Assolutamente no. Io non ho mai visto quella memorabile interpretazione di Albertazzi, pur sapendo che si è trattato di una storica messinscena. Intanto il mio non è un monologo». L’idea è infatti di mettere a confronto Adriana e il suo doppio.
Lo spettacolo sta per cominciare, si accendono le luci, sul fondo si intravede la porta di un camerino. Un faro annuncia l’entrata della protagonista che non avviene. Silenzio assoluto, non succede nulla: «Chiusa in camerino c’è “l’attrice”, cioè io — spiega la Asti — che non è vista dal pubblico perché si sta truccando, cioè preparando per uscire, di lì a poco, alla ribalta e recitare il suo ruolo. In palcoscenico ci sono io, vestita da “sipario”, di velluto rosso con frange dorate. E con me, ci sono il direttore di scena, l’amministratore di compagnia e pure un ammiratore, che ogni tanto interviene dalla platea».
È proprio il direttore che, all’inizio dello spettacolo, compare dalla quinta rivolgendosi agli spettatori e facendo un cenno di scuse, poi indietreggia lentamente, sorridendo a ripetizione. Bussa alla porta del camerino. Nessuno risponde. Bussa di nuovo, apre la porta, entra in camerino. Passano alcuni istanti. Il direttore esce dal camerino, richiude la porta e rivolgendosi alla platea esordisce nervoso: «Signori, non so come scusarmi. La signora Asti non può, non vuole... Sono spiacente di comunicarvi che Memorie di Adriana non potrà andare in scena a causa di una ostinata indisposizione dell’attrice». Si alza l’ammiratore e chiede: «Mi scusi, ma quindi lo spettacolo è sospeso?». Risponde imbarazzato il direttore di scena: «Sì, per ora... sono desolato... Succede che a volte una porta rimanga chiusa, ma magari chissà... poi si riapre».
Il sipario sta per calare, quando una mano ne afferra un lembo e compare un volto bianco, gli occhi grandi. È A., il «doppio», che esordisce dicendo al pubblico: «Siete ancora tutti qui, avete fatto bene ad aspettare. Lei non verrà, la conosco bene, meglio di quanto si conosca lei. Non ha mai avuto alcuna inclinazione a mostrarsi: le poesie di Natale da bambina le recitava dietro una porta! Ma stasera possiamo fare a meno delle sue parole. Ci sono le mie... Forse lei è morta... Lei che parla sempre della morte che non le fa paura, sarà morta davvero. Morta in camerino...».
A questo punto della conversazione con
Adriana Asti interviene la Shammah: «Adriana si confronta con un’altra se stessa con cui rivaleggia, ne racconta pregi e soprattutto i difetti. L’Adriana-sipario parla e sparla di quella chiusa in camerino. Più che uno spettacolo, sembra una seduta psicoanalitica».
D’altronde la Asti ha sempre praticato teatro e psicoanalisi: è infatti nota la sua lunga frequentazione con Cesare Musatti, di cui è stata paziente per più di trent’anni. «Sì, ma lui veniva a vedere i miei spettacoli: o si metteva seduto in prima fila oppure dietro le quinte, invisibile al pubblico ma non a me... E così recitavo con il mio psicoanalista in palcoscenico. Lo vedevo lì, con la coda dell’occhio, ma i miei colleghi accettavano questa stranezza della mia vita, del mio lavoro, della mia analisi... Il mio psicoanalista era adorabile e sublime». Il concetto del «doppio» ricorre spesso nelle parole di Adriana che non ha mai fatto mistero di aver voluto fare teatro solo per condurre un’altra vita rispetto a quella che, con ogni probabilità, le era stata destinata: «La cosa più bella è il fatto di essere in un luogo che non esiste! Il teatro ha sempre soddisfatto il mio bisogno di perfetta solitudine. Mi ha sempre affascinato, per esempio, il teatro deserto, il palcoscenico vuoto, le poltrone nel buio... Quando ero agli esordi, ci andavo anche quando non si recitava. Arrivavo prima di tutti gli altri per godermi il silenzio... Insomma, lo spettacolo in sé non mi interessava per niente, visto che non avevo il minimo talento». Eccesso di umiltà? «No, è la verità. Tuttavia, si capiva che ero in attesa della mia occasione... Forse speravo che la protagonista di una produzione importante si ammalasse, per rimpiazzarla».
L’occasione giusta si materializzò: «Enzo Biagi aveva scritto una commedia, Noi moriamo sotto
la pioggia, destinata ad Andreina Pagnani, grande attrice che però era avanti con gli anni, e così la proposero a me». E una sera, in platea, c’era Giorgio Strehler, «che mi scritturò per il Piccolo, ma io continuavo a chiedermi: devo davvero fare questo mestiere?». Tant’è: Memorie di Adriana è in qualche modo un bilancio esistenziale? «Involontario — ribatte l’attrice — fatto così, per divertirmi e divertire. Non amo raccontare i miei ricordi, preferisco dimenticarli: non ho memoria, il passato e l’avvenire sono la stessa cosa, sono ammiratrice del futuro. Alberto Moravia — prosegue — diceva che odiava talmente il passato, che non riusciva nemmeno a fare marcia indietro con la sua automobile... e infatti guidava malissimo... Diciamo che stavolta — aggiunge — faccio finta di prendermi sul serio».
Infatti, nello spettacolo, si ripercorre un po’ tutta la carriera. «Sì, però non racconto la mia, ma quella dell’“altra” che sta chiusa in camerino e che, probabilmente, non ha il coraggio di venire fuori... Noi attori — riflette — non sappiamo mai chi siamo, il nostro è un mestiere che si ripete all’infinito e la cosa che mi riesce meglio è l’ozio, posso praticarlo in maniera impeccabile, posso tranquillamente non fare niente, è la cosa che mi riesce meglio, perché non ho l’ansia di esserci». Qualche rimpianto? «Per carità! Non fantastico mai su personaggi né su possibili pièce teatrali che avrei potuto interpretare. Adesso, poi, sono diventata autistica: non posso sopportare degli sconosciuti in tournée... In palcoscenico è tanto difficile condividere... Sono troppo vecchia per sopportare, magari, un regista tiranno e non ho più l’età per fare la parte della vittima». Però in teatro continua a restarci: «Certo! Ma perché è un modo per essere un’altra, diversa da me stessa... Ogni volta è come andarmene via... Credo — conclude — che anche in punto di morte, se cosciente, sarò di buon umore».