Corriere della Sera - La Lettura
La volta che Satana mi tentò col cappuccino
Una volta Satana mi ha tentato. Una volta in tutta la mia vita si è accorto di me e mi ha tentato; con solennità e fatuità insieme, mi ha tentato — con innocenza, addirittura, o meglio con una malvagità terminale travestita da innocenza. Mia madre stava morendo. Era scivolata via mansuetamente, di settimana in settimana, senza paura, senza porre condizioni. Un esempio, per me: se mai potrò deciderlo cercherò anch’io di morire così, con quel coraggio. Si era semplicemente accoccolata nella sua malattia e l’aveva vissuta giorno per giorno, passo dopo passo, rendendola più sopportabile per tutti, anche se tutti sapevamo che sarebbe morta. D’altronde ce lo avevano detto subito, cinque mesi prima, quando per la prima volta la scienza aveva intercettato il suo male: non c’era più nulla da fare. E tuttavia avevamo fatto, perché quando la morte viene a prendersi una persona che a 78 anni non è ancora diventata vecchia, non sembra affatto un evento naturale — e si fa. Vanamente, ma si fa. Lei si era abbandonata al nostro fare, sempre lasciando che fossimo noi a prendere le decisioni che bisogna pur prendere quando si fa qualsiasi cosa per una persona che deve morire. L’unica condizione: non doveva morire in ospedale. Non ha nemmeno dovuto porla lei: è stato il nostro punto d’impegno, fin dal principio, il nostro unico fare non vano, garantirle che non si sarebbe mossa dalla sua camera, dal suo letto, fino alla fine. Così la sua malattia era diventata un’abitudine quotidiana per tutti noi: per mio padre, rinchiuso in quella casa anche lui, malato anche lui, destinato anche lui a morire, ma in tempi meno rapidi, che da oggetto delle sue cure s’era dovuto inventare, con rabbia, il ruolo opposto, e curarla; per mio fratello, che viveva a Roma e durante la settimana le telefonava regolarmente, ogni giorno, tre volte al giorno, e faceva lo scemo, e la tirava su, e poi nei weekend veniva a Prato e restava quarantott’ore filate vicino a lei senza mettere nemmeno il naso fuori; e per me, che vivevo a Prato con i miei figli e potevo incastrare le ore da dedicare a lei tra quelle dedicate a loro.
Avevo smesso di lavorare: quell’anno non ne avevo bisogno, per campare c’erano le royalties di Caos calmo; e avevo anche smesso di scrivere, perché ho sempre pensato, come Carmelo Bene, che nel pieno della sofferenza i dilettanti cominciano a scrivere ma i professionisti smettono. Semplicemente, assisterla mentre moriva era diventata un’occupazione, per me, la più importante, nello sforzo di svolgerla senza sbagliare, senza mollare, senza chiedere ad altri di intervenire in mia vece. Esattamente come lo scrivere. Una volta eliminato il lavoro dalla mia giornata, del resto, una volta tolta di mezzo la scrittura, il tempo per occuparsi di lei e dei miei figli c’era tutto — e credo proprio che per questo dei tre — mio padre, mio fratello e io — io fossi quello al quale era toccato il ruolo meno duro.
Ma torniamo a Satana, al giorno in cui si è accorto di me. Eravamo arrivati alla fine, il giorno prima il respiro della mamma si era fatto sordo e gorgogliante, segno che si era formato un edema polmonare, e alla sera, insieme al responsabile della terapia antalgica, avevamo deciso di rinforzare la morfina, per essere sicuri al cento per cento che non soffrisse. In pratica, significava che la mamma non avrebbe più ripreso conoscenza fino al momento della sua morte — che pareva vicino. Perciò ero andato a letto con la paura che, dopo tutti quei mesi di cura e di presenza quotidiana, la mamma morisse mentre io ero lontano da lei, a casa mia, a dormire con i miei figlioli. Malgrado la stanchezza avevo faticato a prender sonno, convinto che sarei stato svegliato da una telefonata nel cuore della notte, e che in quel momento sarei morto un po’ anch’io; che quanto meno sarebbero morte la mia pazienza e la mia capacità di accettazione; che sarebbe morta la mia serenità; che sarei sprofondato nella rabbia e nel rimpianto che fin lì ero riuscito a tenere a bada. Mi ero sempre consolato al pensiero che la mamma sarebbe morta tra le mie braccia, e la telefonata che mi avrebbe svegliato alle tre, alle quattro o alle cinque del mattino avrebbe annunciato la morte anche di quella consolazione.
Invece, alle sette la sveglia è suonata e nessuno aveva telefonato. La giornata è dunque cominciata come sempre: colazione coi ragazzi, poi i due più grandi che se ne andavano a scuola per conto loro, uno al liceo e uno alle medie, mentre io accompagnavo il terzo alla scuola elementare. Come sempre mi sono fermato al forno, strada facendo, per comprargli la merenda, come sempre ho parcheggiato a un centinaio di metri dalla scuola, come sempre sono passato attraverso la cortina di «ciao, buongiorno» degli altri genitori che accompagnavano i loro figli. Ho atteso il suono della campanella, ho baciato in fronte mio figlio, l’ho guardato scomparire nella gola buia della scuola, la schiena curva per il peso dello zaino, e me ne sono andato. Come sempre. Erano le 8.25. In cinque minuti sarei stato a casa dei miei genitori, e la giornata più dura sarebbe cominciata. L’ultima, molto probabilmente — ma perlomeno la mamma aveva passato la notte, perlomeno sarebbe morta tra le mie braccia.
Dev’essere stato in quel momento, mentre raggiungevo la macchina con questo pensiero in testa, che Satana mi ha notato. O forse si era già accorto di me da qualche giorno, aveva preso nota della mia debolezza e in quel momento ha solo deciso di tentarmi. Sta di fatto che mentre salivo in macchina mi è venuto il desiderio di andare al bar a prendere un cappuccino. Un desiderio improvviso, violento — anzi, un bisogno. Un cappuccino caldo, con tanta schiuma e due cucchiaini di zucchero. Dieci minuti, forse meno — poi a capofitto nella morte di mia madre. Che male c’era? Non avevo mai desiderato nulla così ardentemente; anzi, sembrava proprio che non avessi mai desiderato nulla, prima. Un cappuccino. Un cappuccino caldo… (Faccio notare, così, per inciso, che ero solo. Non c’è stato bisogno che qualcuno mi porgesse quel desiderio. Dunque Satana era già dentro di me, proprio come dice Gesù nel Vangelo. O come dice