Corriere della Sera - La Lettura
Anche Caligola laggiù all’internet point
In treno, attraversando le carrozze in direzione del bar, una volta guardavo cosa leggeva la gente, ora guardo quanti hanno un libro in mano. Persone che leggono. Uomini, più spesso donne, che giocano con una ciocca di capelli o mordicchiano il tappo della penna immersi in una pratica mentale diventata così esoterica da apparire quasi ostile. I diversi. Stanno lì, in mezzo agli altri, ma seguono una voce silenziosa che, semplicemente avanzando in quel campo di parole, produce una sequenza di immagini vivaci, tridimensionali, eppure presenti solo nel loro cervello, quindi non postabili o taggabili né immediatamente condivisibili, a meno che uno non decida di parlarne col vicino di posto, ma chi è che attacca bottone oggi sui nostri treni ad alta velocità (tra l’altro dotati di connessione wifi sempre meno singhiozzante)? In questi ambienti open space che sfrecciano lungo la penisola pieni di monadi raccolte ognuna sul proprio smartphone, sigillate dagli auricolari, rapite da un’incessante comunicazione con altre monadi dislocate altrove e al tempo stesso immanenti, chi sarebbe così folle da rivolgere la parola a qualcuno? Magari la prossima volta potrei provarci, forse prima potrei chiedergli l’amicizia.
Mia madre ha chiesto l’amicizia alla vicina di casa, una signora sua coetanea con cui, in più di cinquant’anni, aveva scambiato a malapena qualche battuta sul pianerottolo o sul balcone, dandosi sempre del lei. Ora condividono le poesie di Alda Merini, le foto dei tramonti, i test di femminilità. Di recente si sono incontrate per caso nel parcheggio del condominio e si sono abbracciate sotto lo sguardo sbalordito del marito di lei.
Ovviamente io sono circondato da lettori, è normale, sono persone che in un modo o nell’altro appartengono alla mia stessa enclave. Li incontro alle cene, alle presentazioni, ci somigliamo in tutto, anche nel modo di vestire. Ma è fuori, per strada, che mi sorprendo a veder leggere qualcuno. Voglio dire, libri di letteratura simili a quelli che leggo io.
C’è l’indiano dell’internet point, ad esempio. Già solo l’idea che esista ancora un internet point la dice lunga sulla cablatura della capitale, ovvero sulle difficoltà di accesso alla rete da parte di una percentuale consistente di umani attivi, consistente quel tanto, almeno nel mio quartiere, da rendere indispensabile un simile esercizio commerciale. Ci vado quando devo stampare gli allegati — autocertificazioni, notule, questionari fiscali a scelta multipla — inviati da un’amministrazione comunale o da qualche altro ente pubblico appassionato di modulistica, documenti la cui compilazione, da compiere rigorosamente a penna, può prendermi anche mezza giornata, soprattutto nei casi in cui dimentico di stampare una copia di riserva, e dopo il primo errore incorreggibile, tipo numero di zeri dell’iban, sono costretto a tornare dall’indiano. E lui è lì, seduto dietro un bancone molto alto, dal quale spuntano solo gli occhi, il ciuffo e la parte superiore della copertina. In genere sono vecchi tascabili Penguin. L’ultimo — il Caligola di Robert Graves — l’ho letto anch’io (in traduzione), ero tentato di dirglielo ma è così difficile forzare la sua riservatezza. Appena arrivo, ripone il libro aperto a pancia in giù accanto alla tastiera e mi fissa serio finché non esprimo una richiesta. Poi esegue rapido, pennetta, file, doppio clic e mi consegna i fogli insieme allo scontrino. Per dire sì, fa oscillare ancora la testa come ha imparato da bambino, laggiù, il posto da cui si è allontanato non troppo tempo fa, la casa dove è facile immaginare che torni ogni sera (o forse, dato il fuso, ogni mattina) in lunghe conversazioni via Skype con i genitori e i vecchi amici attardatisi in retroguardia. Lui, l’avamposto, una molecola del miracoloso organismo Cindia attecchita per sbaglio nel quartiere Flaminio, in una stanza senza finestre, illumi- nata dai neon del soffitto, circondata da schermi scadenti, cabine che ricordano la telefonia del secondo Novecento, scaffali e scaffali di mercanzia calibrata sui frequentatori, una clientela composta in prevalenza da portinai, badanti e addette alle pulizie. Filippini e ucraine parsimoniose, che passano a comprare la candeggina tra un autobus e l’altro, qui, ai capolinea di piazza Mancini, ma anche gigantesche prostitute nigeriane che, prima di prendere servizio, si concedono 5 minuti urlati di chiamata intercontinentale.
Fa un certo effetto vedere un ragazzo tuffato in un paperback della Penguin in mezzo a detersivi, batterie, caricatori di cellulare, ma fa ancora più effetto scorgere una copertina della Adelphi in fondo a una piccola pasticceria di Ponte Milvio. Io e Susanna ci andiamo con una certa costanza d’inverno, quando un’estensione tutta arbitraria dei giorni di carnevale permette al signor Marcucci — d’ora in poi Bernhard — di perseverare nella produzione di frappe e a noi di consumarle. È diventato Bernhard nel nostro idioletto, talvolta per intero Thomas Bernhard, per l’algida compostezza screziata di follia che lo accomuna a tanti personaggi dello scrittore austriaco.
Bernhard ha i modi di uno scienziato, di un principe caduto in disgrazie. Sempre serio, nella sua immancabile camicia bianca abbottonata ai polsi, emerge dall’ombra dov’è acquattato a leggere, una sedia da spiaggia sulla soglia del laboratorio, solo quando vede entrare qualcuno. Passando davanti all’unica vetrinetta della pasticceria si ha l’impressione che dentro non ci sia nessuno, ma basta aprire la porta perché Bernhard riponga un romanzo che sembra scritto da lui stesso e si sistemi dietro il banco, in attesa. È misurato, preciso. La volta che mi sono permesso di chiedergli ancora un po’ di zucchero a velo sulle frappe, ha acconsentito non nascondendo la sua perplessità. Troppo zucchero le rende amare, ha sussurrato a fior di labbra. La rivelazione di un alchimista.
Ma sono per forza strani i lettori? Sono diventati stra-