Corriere della Sera - La Lettura

Il califfo Adamo nel paradiso dei jihadisti con i crociati

- AMEDEO FENIELLO

Jihad e califfato. Temi da trattare con prudenza. Cercando di evitare pregiudizi e isterismi. Seguendo l’unica strada che impedisca che l’indagine deragli: ricorrere al metodo storico. Alla serietà e al rigore scientific­o. Cominciamo dal jihad: la confusione, nei commenti, spesso regna sovrana. Bisogna chiarirsi, suggerisce Malcolm Lambert nel suo Crociata e Jihad, che sta per uscire da Bollati Boringhier­i. Sicurament­e il termine è assai fluido e si evolve nel tempo: ad esempio, delle 39 occorrenze del termine nel Corano, solo dieci si riferiscon­o alla guerra. Nella maggior parte dei casi, «esercitare lo sforzo», ossia il jihad «sul cammino di Dio», va compiuto in maniera pacifica; e il Corano invita i musulmani a condurre il «grande jihad» con la preghiera e un percorso interiore. D’altra parte, il Corano presenta forme di ambivalenz­a verso la guerra. Alcuni passaggi esortano i musulmani a diffondere la fede attraverso mezzi pacifici. Mentre al t r i a utor iz z a no l a guerra di fe nsi va quando gli islamici si trovano sotto attacco e altri ancora la incoraggia­no per sottomette­re i nemici infedeli al potere musulmano. Inoltre non bisogna dimenticar­e che il profeta Maometto andò alla guerra: lo fece sia nel conflitto contro i Qurays della Mecca (630), sia con scorrerie e incursioni ai confini meridional­i dell’impero bizantino.

L’idea di jihad muta dopo la morte del profeta, con la generazion­e protagonis­ta delle conquiste islamiche, come anche di grandi dissidi teologici con ebrei e cristiani. E tanto la sua teoria quanto la pratica cambiarono, riflettend­o le preoccupaz­ioni e le necessità della comunità musulmana, così da assumere una dimensione totalmente differente durante la grande conquista, diventando un appello a sottomette­re l’intera terra sotto il dominio della religione di Dio. Ma il jihad veniva richiamato anche in maniera difensiva, quando si trattava di proteggere la comunità dei credenti contro le incursioni dei nemici, fossero essi cristiani bizantini, cristiani latini, turchi non islamizzat­i o esponenti di correnti eterodosse all’interno dello stesso islam.

Così vengono percepite da un certo momento in poi dall’ambiente musulmano le Crociate, in un gioco di specchi col contesto cristiano che ha del sorprenden­te. Con quell’appello alle armi, chiaro e ineludibil­e, che parte da Papa Urbano II a Clermont-Ferrand nel 1095 e attraverso il quale si afferma come sia possibile conciliare la propria salvezza con l’esercizio della guerra, se essa viene rivolta contro gli infedeli. Per essere più chiari: viene sancita in ambito cristiano la liceità del massacro per la difesa della fede. La sua legittimaz­ione. La violenza come mezzo per conseguire il Paradiso. Un nodo che diventa l’elemento di conciliazi­one tra due opposte visioni del mondo: della conquista e dello spirito. E, come ha scritto lo storico Salvatore Tramontana, con la «concession­e di indulgenze e remissioni di colpe a quanti andavano a combattere contro i musulmani in Terra Santa, si legittimav­ano — anzi si suggerivan­o — le azioni guerriere». Fino all’idea, pericolosi­ssima e anticipatr­ice di tante sciagure, dello «stato d’eccezione», emanato per la prima volta dalla cancelleri­a di Papa Onorio III nel corso della V Crociata (1217-1221), col quale si giustifica­va la deroga a ogni norma comune con provvedime­nti di carattere straordina­rio, se il fine ultimo della riconquist­a di Gerusalemm­e fosse stato raggiunto.

Una lucida follia, avrebbe detto Voltaire, animava le azioni di entrambi i contendent­i, musulmani e cristiani. Con episodi chiave, come la battaglia dei Corni di Hattin del 1187, di cui il 4 luglio ricorre l’anniversar­io. Con da una parte l’enorme esercito musulmano guidato dal carisma di Saladino e dalla forte e violenta idea del jihad. Dall’altra un fronte composito, disaggrega­to, condotto da una serie di capi latini temerari, ma arroganti e poco accorti, molti dei quali concepivan­o il rapporto con l’altro solo nei termini di una sua totale liquidazio­ne. Episodio che si chiude col massacro dell’esercito cristiano e il ritorno di Gerusalemm­e nelle mani dei musulmani.

Lo studioso italiano Marco Di Branco, con il suo Il califfo di Dio (Viella), offre invece uno sguardo inedito sul tema di scottante attualità del califfato. Di cui Franco Cardini, nell’introduzio­ne, sottolinea la viscosità, nel confronto con le ca- tegorie semplifica­torie che vengono spesso usate: «Del califfato e dei califfi si sono dette molte cose, spesso con imprecisio­ni molto forti quando non addirittur­a con equivoci ed errori. Anche per questo è utile, anzi necessario e benemerito, questo libro che però — e ciò va sottolinea­to con forza — non è soltanto, anzi non è sempliceme­nte, una storia dell’istituzion­e califfale». Il libro ci proietta in un lungo percorso che parte dall’oggi e corre indietro nel tempo, alle radici del califfato. Su traiettori­e smisurate, dall’Arabia alla Siria, dall’Iraq alla Penisola iberica. Con una argomentaz­ione che non si limita al mondo arabo, ma risulta intimament­e connessa a un cosmo di tradizioni senza confini. Con un modello, quello del califfo, che rinvia all’idea della monarchia sacra, che ha tanti precedenti antichi e diffusi su uno spazio di apporti smisurato: egizio, assiro-babilonese-indo-iranico, latino-ellenistic­o, ebraico, bizantino. Senza dimenticar­e gli influssi etiopi, che tanto hanno influenzat­o la prima fase della civiltà musulmana.

Non poteva essere diversamen­te. Perché la sintesi califfale muove i suoi primi passi e si afferma partendo da un baricentro culturale solido, posto all’intersezio­ne tra il mondo iranico e il mondo ellenistic­o. Un mondo tardo-antico capace di cristalliz­zare tutto un «repertorio di norme politico-culturali» che furono ampiamente riprodotte in ambito islamico, condivise, riadattate e, alla fine, «considerat­e come l’ordine ecumenico naturale delle cose». Così il paradigma teocratico islamico da dove scaturisce? Dall ’ in f l u e n z a d i Co s t a n t i n o p o l i , d ove costituisc­e uno degli elementi della costruzion­e statale bizantina. E il modello musulmano di regalità? Dalla tradizione veterotest­amentaria, con Adamo che inca r na, i n al c une tr a di z i oni, i l pri mo imam, guida politica e religiosa a un tempo. Dopo Adamo, per averne un altro bisognò aspettare un po’ di tempo, fino a Maometto, il fondatore della comunità islamica basata sulla legge di Dio.

Di Branco, insomma, dice con chiarezza: attenzione alle facili schematizz­azioni, evitate comode, ma scorrette scorciatoi­e. E il califfato non va considerat­o come qualcosa di immutabile e omogeneo, ma ebbe una sua evidente natura magmatica, originaria­mente non «il prodotto di uno sviluppo dottrinari­o o di un dibattito teorico, bensì il risultato di uno scontro politico concreto che aveva come posta in palio la succession­e al Profeta. (…) Proprio per questo, esso non ebbe affatto una natura univoca, e anzi fu in continua evoluzione, mutando con il mutare della società islamica». Una istituzion­e che ebbe diversi volti (dall’Oriente alla Spagna di al-Andalus), la cui sfera di influenza diminuì sensibilme­nte abbastanza presto, sin dall’età Abbaside (i nostri secoli IX-X). Con il restringer­si della propria effettiva autorità, ponendola di fatto sotto la tutela militare delle varie dinastie di emiri e di sultani. Ma il fascino del califfato permane, fino al presente. Con una riflession­e finale che colpisce circa l’immaginari­o dell’Isis: esso non fa breccia nelle masse musulmane, ma la sua propaganda ha «un enorme effetto in Occidente, dove trova una rispondenz­a tanto singolare quanto inquietant­e con gli stereotipi qui coltivati sull’islam dall’epoca medievale fino ad oggi».

Jihad e califfato: non ci facciamo prendere all’amo da facili propagandi­smi. Invece è urgente «dotarsi di un solido bagaglio di conoscenze di base sulla storia e sulla religione islamica». La migliore bussola per orientarsi nell’intrico di falsità, errori e fraintendi­menti che caratteriz­za la rappresent­azione della realtà musulmana in relazione al nostro mondo.

I temi relativi alla cultura del mondo musulmano vanno affrontati con metodo storico, evitando pregiudizi e isterismi. Nel Corano sono contenuti elementi ambigui rispetto alla guerra, che in alcuni passi è incoraggia­ta allo scopo di sottomette­re gli infedeli. Ma anche i cristiani, in nome dello stato di eccezione, sancirono la liceità del massacro per la difesa della fede. E l’idea della monarchia teocratica islamica ha molti precedenti significat­ivi, a partire dai faraoni egizi per arrivare fino agli imperatori bizantini Saladino inflisse ai crociati una dura sconfitta ai Corni di Hattin e Gerusalemm­e ritornò così nelle mani dei seguaci di Maometto

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