Corriere della Sera - La Lettura
Il ghost writer ha paura degli spari e abbraccia il bassotto Lulù
Un paio di anni fa tra tutti i titoli di una bancarella di libri usati scelsi L’ uomo che voleva essere Francis Scott Fitzgerald di David Handler. Era un’edizione economica, i nuovi gialli Mondadori. Il protagonista è Steward Hoag: è un ex scrittore prodigio della narrativa americana, autore da ragazzo di un romanzo di grande successo, che però non ha mai saputo replicare. Ha perso l’ispirazione, la fama e anche la moglie, famosa attrice di Hollywood. Quasi cinquantenne, vive facendo il ghost writer per le celebrità, insieme alla permalosa Lulù, un bassotto pieno di allergie e dall’alito pesante. Per le sue avventure, Handler si rifà a casi e fatti realmente accaduti: L’uomo che voleva essere Francis Scott Fitzgerald è il primo della serie, ed è ambientato nel mondo dell’editoria. Hoag deve tornare in un ambiente dorato e fasullo che ha conosciuto nei suoi anni sulla cresta dell’onda, perché gli viene chiesto di scrivere il secondo libro di Cam Noyes, giovane scrittore bello come un attore, acclamato da pubblico e da critica ma che non riesce a scrivere il secondo romanzo dopo il successo planetario del primo. Poi incominciano ad arrivare i morti, e la faccenda si complica. Hoag non è però un investigatore hard boiled, non è un duro senza paura e non gira nemmeno armato, se non di una penna. Forse per questo non ha il successo di tanti altri investigatori più o meno ufficiali: assomiglia poco al classico eroe dei gialli. Se sente uno sparo, si getta sotto il tavolo abbracciato a Lulù. Però Hoag è un duro, a modo suo. La cosa che lo rende speciale è sopratutto quella specie di ombra che ha dentro, una malinconia quasi sudamericana, che lo rende tanto simile al grande Philip Marlowe. Qualcosa di molto simile al rimpianto.